di Davide Banzato
A seguito del terribile terremoto del 1178 che dovette, come in altri centri dell’Italia nord orientale, colpire duramente tutti gli edifici cittadini, all’inizio del Duecento si verificò a Padova una fase di grande ricostruzione che coinvolse edifici sia civili che religiosi e coincide con il periodo d’oro del Comune padovano.
È solo a partire dal Trecento però che restano testimonianze di una precisa volontà di tramandare l’immagine urbana. Si tratta, come quasi sempre avviene in quest’epoca, di rappresentazioni puramente simboliche, di agglomerati fantastici di edifici, anche se spesso connotati da vivaci spunti realistici.
Si può procedere all’esame per sommi capi di questo tema caratterizzato da una vastissima documentazione a partire dal Modellino della città di Padova attribuito allo scultore veneziano Andriolo de Santi e posto ai piedi della tomba da lui eseguita per il signore di Padova Ubertino da Carrara nella chiesa degli Eremitani. La tomba fu qui trasportata dall’originaria collocazione nella distrutta chiesa di S. Agostino1.
Si tratta di opera databile alla seconda metà del quinto decennio del secolo XIV, strettamente imparentata a quelle rette nei dipinti generalmente dalle figure dei santi patroni delle città. Si spiega la sua presenza nel contesto tombale in quanto fu proprio Ubertino il signore carrarese che maggiormente si segnalò per l’attività edilizia: costruì la reggia e rafforzò il sistema difensivo. Nel modello la città è infatti individuata dai suoi monumenti più importanti che si stagliano dall’intrico di case grandi e piccole.
L’orientamento delle emergenze architettoniche viene però talora invertito per offrirne più comprensibile figurazione: distinguiamo la Basilica di S. Antonio, il Palazzo della Ragione, le mura della cerchia più interna con le torri, mentre è andata perduta la parte nella quale doveva essere scolpita la Reggia.
Le fonti dell’immagine possono essere individuate già nei sigilli duecenteschi; quanto osserviamo, tutto sommato, corrisponde nel tipo di visione a un’altra celebre rappresentazione di Padova, l’affresco in cui sant’Antonio compare al beato Luca Belludi, eseguito nel 1382 da Giusto Menabuoi2 nell’omonima cappella della Basilica del Santo, nel quale la città viene additata dal santo stesso quale Gerusalemme celeste.
È possibile apprezzare questa veduta di Padova stretta nella cerchia turrita delle mura più interne non tanto per il suo valore di documentazione topografica, quanto per l’aspetto evocativo e simbolico che riflette la descrizione data da Giovanni da Nono intorno al 1318 nella Visio Egidii: le case più importanti sono munite di torri; in basso a sinistra si nota la struttura fortificata del Castello, mentre al centro si erge la caratteristica mole del Palazzo della Ragione come si presentava prima dell’incendio del 1420.
Qui non sono rappresentati i borghi che, già nel Duecento, avevano cominciato a delineare le vie di espansione della città intorno alle chiese degli ordini predicatori e presto sarebbero stati inglobati da nuove cinte fortificate. I nuovi agglomerati si formarono soprattutto intorno alle chiese degli Eremitani, dei Carmini, di Sant’Antonio. I borghi compaiono invece alla metà del Quattrocento in uno dei documenti più antichi di questo tipo, la Padova e il suo territorio attribuita a Francesco Squarcione “sartus et recamator” che nel 1465, in cambio della cancellazione da parte di Padova dell’estimo di sua proprietà e l’esonero dalle tasse, rilevò la città e l’area circostante3 di sua pertinenza nella pergamena destinata a essere esposta nell’offitio Cancellerie Communis.
Il tracciato si vale di materiale preesistente noto ora solo in copia, dovuto al Maggi e a sua volta riflesso grafico del Liber de magnificis ornamentis regie civitatis Padue composto tra 1446 e 1447 da Michele Savonarola.
Rimane, entro certa misura, in una dimensione simbolica, lontano dalla preoccupazione di descrivere il tessuto urbano, ma comincia ad offrire notazioni topografiche attendibili, in particolare per quanto riguarda gli edifici più significativi, le fortificazioni e la loro disposizione nella cinta cittadina e nel territorio e la loro relazione con l’idrografia. È un modo di rappresentare la città che resterà in auge piuttosto a lungo, se questi stessi documenti sono ripresi nella veduta a volo d’uccello Padova circondata dalle muraglie vecchie inserita nel 1623 nel volume Della felicità di Padova di Angelo Portenari.
La veduta, basata su di un disegno di Vincenzo Dotto, nel ricostruire l’andamento delle cortine e delle torri cancellato dagli interventi di fortificazione cinquecenteschi è arricchita dall’indicazione dei principali edifici di culto, ma compaiono notazioni per noi interessanti su alcuni dei monumenti ritenuti più notevoli: oltre al Santo, al Duomo e S. Giustina, compaiono il Castello, la Reggia, il Palazzo della Ragione4.
È comunque nel Cinquecento che si cominciano a incontrare anche in pittura riprese della città realizzate in modo attendibile. Naturalmente la veduta non è ancora protagonista dell’immagine; si trova comunque in una posizione centrale nei grandi quadri celebrativi che andavano a ornare le sedi del pubblico potere. Nel 1537, a seguito di un concorso all’uopo indetto, Domenico Campagnola licenziava per la Loggia del Consiglio il dipinto, ora ai Musei Civici, con La Madonna con i Santi Protettori di Padova e gli Evangelisti Luca e Marco.
La veduta della città ripresa dal lato sud permette di distinguere realisticamente elementi della cerchia bastionata, il Santo, il complesso di S. Giustina, torri della città. È un modo di rappresentare che convive con la città vista come modello, retto, in scene di questo tipo, di norma, da uno dei santi protettori di Padova, Daniele; lo vediamo nel dipinto di Ludovico Fiumicelli, sempre ai Musei Civici ed eseguito per il medesimo concorso, nel quale gli stessi elementi monumentali identificativi, pur rilevati con cura, sono necessariamente assemblati in un contesto topografico del tutto di comodo5.
Lo stesso discorso può essere fatto per le vedute che compaiono in tele successive come Il podestà Marino Cavalli presentato al Redentore realizzato dal Campagnola nel 1562, nel Dipinto celebrativo dei rettori di Padova Jacopo e Giovanni Soranzo di Palma il Giovane e databile intorno al 1591 o Il podestà Federico Renier presentato alla Vergine, eseguito nel 1597 da Francesco Apollodoro, tele nelle quali il contesto urbano si arricchisce di dati del panorama naturale, soprattutto se confrontati con gli esiti percepibili nel solito modello retto da san Daniele nel dipinto di Dario Varotari, originalmente eseguito per la chiesa degli Orfani Nazareni nel 15946.
Ma è principalmente la ragione militare a determinare un tipo di rappresentazione più precisa. Si parte dall’accurato rilevamento delle acque interne ed esterne richiesto da Bartolomeo Zacco, leggibile nel disegno del 1566 circa di Cristoforo Sorte7 che, seppure privo di dati sull’andamento del tessuto urbano, permette tuttavia di leggere esattamente l’assetto delle nuove strutture difensive bastionate, concluse nel 1546. Si assume quest’opera ad esemplificazione delle numerose rilevazioni, anche parziali, condotte sulle mura nel corso del secolo XVI.
Già dall’ultimo quarto del secolo XV avevano cominciato a diffondersi immagini, per lo più realizzate con la xilografia, a uso e consumo degli editori spesso a nord dell’Europa, che inserivano nei loro compendi universali assemblaggi generici di elementi simbolici (mura, porte, torri e altro) volti a richiamare il concetto di città più che a fornirne aspetti identificativi. Si data al 1560 il primo tentativo di offrire una visualizzazione con elementi reali: lo osserviamo nello Scardeone8; in un’anonima incisione di corredo vediamo apparire, nella forma ovale di un sigillo, in un contesto del tutto immaginario e in un assemblaggio casuale, le emergenze del Santo, del Castello, del Salone e alcune torri del centro. Per molti anni ancora tengono il campo vedute a volo d’uccello, rappresentazioni di edifici e piante che si distinguono per un contenuto soprattutto simbolico.
In queste infatti ci si preoccupa principalmente di cogliere elementi identificativi senza voler ricostruire il tessuto reale; si riprendono talora elementi scomparsi da tempo come le mura medievali.
È solo a partire dalla fine del Cinquecento che ci si avvia sulla strada di una rappresentazione attendibile. Il primo esempio in questo senso è la stampa che traduce su rame la pianta di Padova di Giuseppe Viola Zanini, architetto e trattatista9, che la delineò nel 1599 creando l’archetipo di successive, e periodicamente aggiornate, piante della città che si snodano lungo tutto il secolo XVII, secondo un’immagine urbana più o meno verosimile10.
Il tracciato cinquecentesco delle mura è attendibile, i quartieri sono resi attraverso aggregazioni reali per i singoli settori, verosimili per quanto riguarda la densità edilizia del momento, anche se basata su notazioni generiche; il tessuto viario è interrotto dalle emergenze dei monumenti principali colti a volo d’uccello e dai varchi delle piazze11.
La veduta della città rimane un complemento dei dipinti, non il soggetto principale. Però, accanto agli assemblaggi identificativi di comodo, come quello Santo/Salone che compare nel Battesimo di Chiara Maria Minotto eseguito nel 1605 da Leandro Bassano12, e ai soliti modellini della città retti nei quadri votivi di Giambattista Bissoni e Pietro Damini, cominciamo a notare, proprio in questi due pittori, una particolare attenzione per una fedele rappresentazione di specifiche zone della città.
È il caso del Prato della Valle che compare, protagonista della fascia inferiore dello spazio disponibile, nella S. Giustina in gloria d’Angeli dipinta sempre nei primi anni del Seicento dal Bissoni e nei Santi protettori di Padova del 1617-1619 del Damini. Grazie a queste opere siamo in grado di conoscere la fisionomia di edifici scomparsi, come l’Ospedale di S. Leonino13.
Rispetto a quanto delineato da Viola Zanini, nel corso del Seicento l’immagine della città, ormai abitualmente inclusa nei compendi delle più importanti città d’Italia14, non conosce variazioni di particolare significato, se non nel senso dell’aggiunta di qualche particolare o la registrazione, più o meno sommaria-più o meno precisa, dei mutamenti intercorsi nel tessuto urbano. Del resto, la città, chiusa all’interno del sigillo delle mura cinquecentesche conosceva uno sviluppo ridotto e forzato per tutta l’epoca del dominio della Serenissima. Va rilevato però che è proprio nel Seicento che si impostano le prime vedute prospettiche. Queste, in alcuni casi, nonostante la presenza di inesattezze e anacronismi cominciano a mettere a punto uno strumento atto ad assecondare gli intenti di precisione che caratterizzeranno il Settecento15.
La veduta prospettica che compare nella Galerie Agreable du Monde, fatta eseguire da Pieter van der Aa nel 1729, avvia, nella sua minuziosa descrizione degli edifici principali e della selva delle torri che si stagliano dal tessuto urbano16, un modo attendibile di disporre le costruzioni nello spazio cinto dalle mura, creando anche un realistico rapporto tra le dimensioni dei diversi elementi.
È una strada che prosegue, secondo un modo di tratteggiare gli edifici sempre più particolareggiato, con le vedute prospettiche, non solo a stampa ma anche dipinte, fra le quali si ricordano in particolare quelle di Friedrich Bernhard Werner del 1735 circa, particolarmente fortunata in quanto riproposta anche da numerosi altri editori, e quella di Jean De Honstein del 1738.
Divengono frequenti, a partire da quella di Thomas Salmon del 1751, anche le vedute a volo d’uccello, anche se le prime a noi note non sono frutto di dirette rilevazioni ma sfruttano materiale precedente rielaborato con un notevole grado di approssimazione17. Nel 1769 Giannantonio Paglia delineava ad acquerello un’attentissima proiezione prospettica, rappresentando con precisione la cinta bastionata e l’intera serie delle emergenze architettoniche della città, descrivendo l’alzato di edifici ora scomparsi o mutati.
Dopo la validissima carta e pianta del grande cartografo Rizzi Zanoni del 1776-178018, si suole indicare, quale punto più alto della ricerca di rigore scientifico nella rappresentazione, la Pianta di Padova disegnata tra il 1779 e il 1781 da Giovanni Valle e poi incisa su rame a Roma da Giovanni Volpato tra il 1782 e il 1784. Il disegno, tuttora esistente presso l’Accademia Galileiana, fu eseguito su incarico di Girolamo Zulian, ambasciatore veneto a Roma, secondo una precisa rilevazione trigonometrica, e costituisce la più dettagliata descrizione in nostro possesso della città, prima dell’epoca dei grandi cambiamenti seguita alla caduta della Serenissima19.
In questo senso si può affermare che le numerose piante e catasti che si susseguono nel corso dell’Ottocento, dall’epoca napoleonica, attraverso la dominazione austriaca, dalle riprese di Rizzi Zanoni alle prove, talora più volte riedite, dello Spinetti, di Guarnieri, Tanzi, Voltolina, D’Avanzi e su su fino a Patella, Lanzani, Maridati e Sabadini, con i quali si entra nell’epoca unitaria, non fanno che ripetere, almeno in pianta, e quando necessario aggiornare, ciò che era stato raggiunto dal Valle.
Nel suo lavoro, oltre alla resa attentissima della planimetria, che si spinge a delineare anche l’andamento interno degli edifici più importanti, colpisce, nel disegno della cornice, l’esatta ripresa, forse eseguita sfruttando strumenti ottici, di quelli che potevano essere ritenuti segni distintivi della città come era venuta qualificandosi soprattutto dal Cinquecento: oltre ai consueti Santo e Salone compaiono porte cittadine, il Castello, la piazza dei Signori, il Monte di Pietà Vecchio e quello Nuovo e, addirittura, la loggia Cornaro, mentre in basso è rappresentato il Prato della Valle.
Proprio quest’ultimo grande invaso è quello che sembra attirare nel Settecento quanti si propongono di consegnare, oltre che un insieme della città, anche rappresentazioni al dettaglio dei suoi spazi più vivi e celebrati.
Canaletto non si era accontentato della sua tipica veduta esatta: nel dipinto del Museo Poldi Pezzoli di Milano, ma anche nella bella stampa in due rami, intorno alla metà del quinto decennio20, non aveva offerto una mera rilevazione del sito, ma lo aveva contestualizzato e reso un documento di vita di un preciso istante con l’inserimento, in una trasparente luminosità, delle attività umane.
È uno spirito che dura per decenni: lo stesso soggetto nel 1773 viene ripreso da Giorgio Fossati unendo al preciso intento documentario, appoggiato da giochi di luce bellottiani, l’elemento naif del grande invaso occupato da equipaggi, carrozze, cavalieri e spettatori che assistono all’evento della corsa dei fantini21.
Ma nel Settecento si era fatta strada un’altra esigenza rappresentativa, forse di tono più dimesso, quella di rifornire i viaggiatori, e la gente in genere, di immagini souvenir dei paesi visitati, uso cresciuto con lo sviluppo del turismo, soprattutto inglese e straniero in generale.
La risposta più accreditata in quel secolo è costituita dalle ventuno acqueforti pubblicate da Francesco Bellucco nel Teatro prospettico: fabbriche più considerevoli della città di Padova che, al di là dell’esito artistico non straordinario, documentano accuratamente la situazione urbanistica e architettonica della città al momento della pubblicazione, avvenuta intorno al 1787. Anche i Remondini si inoltreranno su questa identica strada, di un prodotto attendibile e accessibile a tutti.
A questi raggiungimenti del secolo dei lumi, volto a rispondere alle istanze di una “veduta esatta”, l’Ottocento poteva rispondere solo rendendo la sensazione del tempo che passa, dello stacco da un’epoca precedente che si riteneva ormai conclusa. Un primo sensibile interprete di questo atteggiamento è Marino Urbani22; se il lavoro del Valle resta fondamentale per la precisa resa della pianta di molti edifici scomparsi, la serie di acquerelli dell’Urbani risulta fondamentale per la ricostruzione dell’originale aspetto architettonico di costruzioni demolite, scomparse o manomesse.
Nel ritrarre la di-
strutta chiesa di S. Agostino o il Castello, l’Urbani è fedele alla realtà nella prospettiva e supera l’aspetto settecentesco per avvicinarsi a certe forme della cultura scientifica del secolo XIX, lasciando alla sua immaginazione solo il compito di rendere la mutevolezza del cielo, figure di astanti, alberi o diversi oggetti che fanno da contorno al ristretto campo visuale che inquadra il monumento.
Se nelle vedute a volo d’uccello di metà secolo, come quelle di Guesdon e Putti, si raggiunge ormai un’attendibilità sempre più accentuata, chi ci restituisce il senso della vita cittadina nel modo più compiuto è Pietro Chevalier. Nato a Corfù nel 1795, allievo di Giannantonio Selva, ebbe modo di crescere collaborando alla realizzazione dei disegni di fabbriche veneziane di Diedo e Cicognara ed esplicò la sua attività soprattutto in qualità di giornalista e incisore.
Dopo le sue prime prove di illustratore, per i fratelli Gamba, si spostò tra Venezia e Trieste, rientrando a Padova nel 1852 dove rimase fino alla morte avvenuta nel 1864. La sua opera lo pone come il degno continuatore di una tradizione che risale a Carlevarijs, Costa e Canaletto.
Nelle sue vedute i cittadini di Padova compaiono nel loro passeggio a piedi o in carrozza, secondo un rituale di usi e costumi che li pone in un’epoca ben definita, accanto ai monumenti tradotti con tanto amore nell’acquatinta e nell’acquaforte e, successivamente, in litografia.
Rispetto alle prove dei contemporanei Marco Moro, Tosini o Cecchini i suoi fogli rivelano un salto di qualità piuttosto marcato23 ed è solo con lui che si compie il passaggio dalla veduta all’immagine sentimentale.
Dopo la sua opera sarà compito della fotografia tramandare l’immagine della città e delle sue trasformazioni24; ci rimangono riprese cariche di interesse, talora di contenuto emozionale intenso, che portano il mezzo tecnico anche a personali interpretazioni, ma ormai al di là quell’immagine urbana che si era formata grazie alla secolare pratica dell’osservare e trascrivere.
Di un certo interesse risulta pertanto la veduta a litografia di Guido Albanello che compare ora nell’edizione di Gilberto Padovan. Si riallaccia infatti allo spirito della vecchia veduta a volo d’uccello ma mentre, se si escludono gli ultimi esempi ottocenteschi sopra citati, si trattava in molti casi di rappresentazioni almeno parzialmente simboliche, la ripresa da sud ovest di fronte alla quale ci troviamo ora si fonda su nuovi criteri di esattezza, risultando evidente il ricordo delle immagini raccolte dall’aereo.
Queste però non sono tradotte solo nel loro netto aspetto documentario, ma si valgono dell’interpretazione del segno grafico che meglio contribuisce alla resa dell’aura dei nostri giorni e a un’immagine più sensibile delle tracce del passato.
Note
- Si veda la scheda di G.Tigler, in Giotto e il suo tempo, catalogo della mostra a cura di V. Sgarbi, Padova, Musei Civici agli Eremitani, 25 novembre 2000-29 aprile 2001, Milano, F. Motta, 2000, pp. 386-387.
- F. Flores d’Arcais, La decorazione a fresco, in La cappella del beato Luca e Giusto de’ Menabuoi nella Basilica di Sant’Antonio, coord. C. Semenzato, Padova, Messaggero, 1988, p. 77.
- Si veda la scheda di M. Benettin, in A volo d’uccello. Jacopo de’ Barbari e le rappresentazioni di città nell’Europa del Rinascimento, catalogo della mostra, Venezia-Museo Correr, Venezia, Arsenale, 1999, pp. 121-122.
- C. Semenzato, Padova illustrata. La città e il territorio in piante e vedute dal XVI al XX secolo, Padova, Signum, 1989, pp. 18-19.
- Il primo accostamento per i due dipinti è dovuto a G. Mazzi, in Alvise Cornaro e il suo tempo, catalogo della mostra a cura di L. Puppi, Padova, Loggia e Odeo Cornaro, Palazzo della Ragione, 7 settembre 9 novembre 1980, Padova, Industrie Grafiche Antoniane, 1980, p.246; per un’aggiornata lettura critica delle due tele si vedano le schede di E. Saccomani in Da Bellini a Tintoretto. Dipinti dei Musei Civici di Padova dalla metà del Quattrocento ai primi del Seicento, catalogo della mostra a cura di A. Ballarin e D. Banzato, Padova, Musei Civici, 19 maggio 1991-17 maggio 1992, Roma, Leonardo-De Luca, 1991, pp. 147-150.
- Si vedano le schede rispettivamente di E. Saccomani, S. Mason Rinaldi, F. Pellegrini, A. Pattanaro, in Da Bellini a Tintoretto, pp. 158, 240-241, 263, 234-236.
- Si veda la scheda di G. Mazzi in Alvise Cornaro, p. 235.
- B. Scardeone, De Antiquitate urbis Patavii, Basilea, apud Nicolaum Espiscopium iuniorem, 1560.
- A. Bellini, Giuseppe Viola Zanini, pittore di prospettive e trattatista di architettura, “Padova e la sua provincia”, XXVII, 3, 1981, pp. 3-16.
- Iconografia di Padova. Piante e vedute della città e del territorio, catalogo della mostra a cura di C. Semenzato, Padova, Palazzo del Monte, 22 novembre-21dicembre 1986, Cittadella, Bertoncello, 1986, pp. 25-29.
- G. Mazzi, in Alvise Cornaro e il suo tempo, p. 243;
- Si veda la scheda di D. Banzato in Pietro Damini 1592-1631. Pittura e controriforma, catalogo della mostra a cura di D. Banzato e P. L. Fantelli, Padova, Palazzo della Ragione, 15 maggio-30 settembre 1993, Milano, Electa, 1993, p. 88. Il dipinto è ora di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo.
- Per i dipinti di Bissoni si vedano le schede di G. Baldissin Molli e L. Caburlotto di Da Padovanino a Tiepolo. Dipinti dei Musei Civici di Padova del Seicento e del Settecento, a cura di D. Banzato, A. Mariuz, G. Pavanello, Milano, F. Motta, 1997, pp. 99-103; per Damini le schede rispettivamente di P. L. Fantelli e D. Banzato in Pietro Damini, p. 122 e pp. 154-155.
- S. Ghironi, Padova. Piante e vedute, Padova, Panda, 1985, nn. 16-54.
- Si pensi in particolare alla proiezione prospettica che compare nella Dissertazione di Anonimo (Gian Roberto Papafava) eseguita nel 1645 ed edita solo alla metà del secolo successivo; cfr. S. Ghironi, Padova, n. 32.
- G. Mazzi, Cartografia, in L. Puppi, M. Universo, Padova (“Le città nella storia d’Italia”), Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 273.
- S. Ghironi, Padova, nn. 67, 68, 75, 77, 78, 80, 81.
- G. Mazzi, Cartografia, p. 274.
- A. Maggiolo, Pianta di Padova, MDCCLXXXI. Rivelata e disegnata da Giovanni Valle giustinopolitano con la sovrintendenza di Simone Stratico. Riproduzione alla pari in 18 tavole e una carta d’insieme del disegno originale presso l’Accademia patavine di scienze, lettere ed arti, Padova, Erredieci, 1983.
- L’opera completa del Canaletto, presentazione di G. Berto, apparati critici e filologici di L. Puppi, Milano, Rizzoli, 1968, n. 210; Da Carlevarijs ai Tiepolo. Incisori veneti e friulani del Settecento, catalogo della mostra a cura di D. Succi, Gorizia, Musei provinciali, Palazzo Attems-Venezia, Museo Correr, Venezia, Albrizzi, 1983, p. 100.
- Si veda la scheda di G. Pavanello in Da Padovanino a Tiepolo, pp. 312-313.
- L. Grossato, Marino Urbani (1754-1853). Padova nel primo ’800. Disegni e acquerelli, Padova,Tip. del Seminario, 1971.
- C. Semenzato, Iconografia di Padova, pp. 10-11.
- Se ne veda la rassegna offerta da M. Universo in Padova, il volto della città. Dalla pianta del Valle al fotopiano, catalogo della mostra a cura di E. Bevilacqua e L. Puppi, Padova. Musei Civici agli Eremitani, Padova, Editoriale Programma, 1987, pp.168-196.