Treviso da nord

di Eugenio Manzato

Dundsc_0418-trevisoque una nuova veduta di Treviso! Nuova sotto molti aspetti, dalla “presa” da nord, del tutto inconsueta, al punto di vista rialzato che ce ne offre visione panoramica, al naturalismo nel rilievo delle architetture che consente di ritrarre anche gli edifici (e quanto numerosi) del secondo Novecento.

La verità è che abbiamo di Treviso una visione sedimentata, che deriva dallo stereotipo di Ludovico Pozzoserrato, veduta di grande fortuna al punto da condizionare tutte le successive, fino a prove recenti.

E del resto lo stesso Pozzoserrato era stato a sua volta condizionato dalle vedute prospettiche della città illustrate negli atlanti pubblicati fra Quattro e Cinquecento il Supplementun Cronicarum di Jacopo Filippo Bergamense di cui si ebbero tre edizioni fra il 1483 e il 1486, e la cosidetta Cronaca Nurimbergense del 1493. Erano, queste, immagini di fantasia che illustravano una città turrita circondata da alte mura e lambita da un fiume: proprio la presenza del Sile in primo piano presupponeva la presa da mezzogiorno, seguita anche dal Pozzoserrato.

L’artista, nato ad Anversa intorno al 1550, presente a Venezia almeno fin dal 1575, si stabilisce a Treviso nei primi anni ’80 del Cinquecento, e la veduta della città ne è forse uno dei primi lavori.

La veduta nota non è a dire il vero direttamente eseguita da lui: è l’acquaforte tratta, come recita la didascalia, “ex archetipo Lodovici Toeput”, che fu elaborata e incisa da “Georgius Houfnaglius”, cioè Jooris Höefnagel, per l’atlante, curato da Braun e Hogenberg, Civitatis Orbis Terrarum, pubblicato in più volumi a Colonia fra il 1572 e il 1618.

Il disegno che ne è all’origine viene identificato con quello della collezione Frits Lugt, conservato all’Istituto Olandese di Parigi: è una composizione ben orchestrata, con il profilo della città – torri, campanili, le chiese, i palazzi di maggiori proporzioni – che si eleva sopra la bassa e compatta cinta muraria, allontanata prospetticamente
dal primo piano per mezzo di sapienti tocchi di acquerello e inchiostro che simulano il terrapieno del Terraglio – la strada che univa Treviso al porto lagunare di Mestre – e la vasta spianata antistante le mura.

Sopra la città un ampio cielo con nuvole appena accennate e, al centro, un festone araldico che sostiene lo stemma di Treviso e una tabella con la data “1582- 31 luglio”; al piede, a sinistra, la firma “Lodovico Pozzo Fiammingo abitante in Treviso”. Si fissa con questo disegno l’aspetto, abbastanza preciso, della città alla fine del Cinquecento: secolo iniziato con la dolorosa demolizione delle mura medievali. L’abbattimento della vecchia cinta si era reso necessario, a Treviso co­me in altre città della terraferma Veneta, per approntare difese atte a contrastare le forze imperiali austriache, coalizzate con altre potenze europee nella Lega di Cambrai contro Venezia.

Dell’aspetto di Treviso medievale rinserrata in alte mura turrite ci dà sintetica testimonianza Lo­renzo Lotto, attraverso il modelletto della città in mano al suo patrono San Liberale nella pala di Santa Cristina di Quinto, realizzata nel 1505, solo pochi anni prima della demolizione. Le ricostruzioni degli storici  permettono di conoscere come la città avesse un perimetro alquanto irregolare, essendosi il centro urbano sviluppato dal primitivo nucleo romano per addizioni successive in epoche diverse.

L’abbondanza di “fontane” aveva permesso di circondare completamente le mura medievali di acqua corrente, adducendo parte dell’acqua del Botteniga intorno al lato orientale nel canale di Santa Sofia, mentre a occidente acque di risorgiva erano incanalate nel canale di Cantarane. Il Botteniga entrava in città da nord, passando sotto le mura, suddividendosi in tre rami: due di essi erano chiamati Cagnani – denominati successivamente Cagnan dei Buranelli e Cagnan della Pescheria – mentre il terzo è chiamato Roggia nel primo tratto e Siletto nel tratto inferiore, ed è forse frutto di sistemazione idraulica di epoca altomedievale.

Questi tre fiumi andavano a sfociare nel Sile, che ha direzione est-ovest. Una vasta isola fluviale del Sile, allungata secondo il suo percorso, fu inglobata nella città nel corso dell’espansione urbana del primo Duecento, fornita di mura sul lato esposto verso l’esterno a meridione, e dotata di una porta, detta Altinia o Attilia, a cui giungeva l’importante strada del Terraglio.

Città d’acque dunque, prezioso granaio alle spalle di Venezia per la presenza di numerosi mulini che producevano farina tutto l’anno: collegata alla laguna attraverso l’importante via fluviale costituita dal Sile, che sfociava in antico all’altezza di Torcello, e che continuò ad essere utilizzata anche dopo che ne fu deviata la foce fuori dalla laguna, attraverso un si­stema di “conche” all’altezza di Caposile.

Questa importante funzione di riserva granaria spinse le autorità veneziane a fortificare Treviso fin dall’inizio delle ostilità con gli imperiali, nel 1509: un piano strategico progettato da Fra Giovanni Giocondo portò all’abbattimento delle mura medievali, inadeguate a reggere l’urto delle moderne bombarde, trasformando Treviso in una vera e propria fortezza. Insieme alle mura furono abbattuti i borghi – appendici della città che si prolungavano al di fuori delle numerose porte – al fine di creare una “spianata” larga più di mezzo miglio, senza case e senza alberi, attraverso la quale il nemico sarebbe avanzato completamente allo scoperto.

Le proteste dei trevigiani per le demolizioni provocarono la rimozione di Fra Giocondo dalla direzione dei lavori, sostituito in un primo tempo dall’architetto Alessandro Leopardi, e quindi, dal 1513, da Bartolomeo d’Alviano, comandante delle truppe della Serenissima.

Le necessità di difesa tuttavia forzarono la resistenza dei trevigiani e fu compiuto il progetto di Fra Giocondo: Treviso ebbe una forma più regolare, all’incirca quadrilatera, e nuove mura basse e rafforzate da un profondo terrapieno, su cui si aprivano tre sole porte, al posto delle undici della cerchia medievale. Acque correnti, in fossati muniti di controscarpa verso l’esterno, circondavano completamente la nuova fortezza.

Treviso assumeva così quella “forma urbis” che la connota ancora al presente, e che ne avrebbe condizionato lo sviluppo impedendone l’espansione al di fuori delle mura.
È questa la città di cui per primo ci tramanda il panorama Ludovico Pozzoserrato: mura basse che lasciano intravedere il profilo degli edifici contro l’orizzonte chiuso dalle Prealpi, il Sile che vi entra da occidente e ne esce a oriente.

Negli stessi anni di fine Cinquecento, forse ispirandosi alla veduta diffusa da Höefnagel, Giacomo Lauro rappresenta San Liberale nella pala di Campocroce di Mogliano mentre regge un “modelletto” della città non compatto ed esemplificato come quello esibito dal Santo nella pala di Roncade, dipinta negli anni Quaranta da Paris Bordon, bensì dilatato in lunghezza, tanto che, per sorreggerlo, il Santo deve appoggiarlo al fianco, ben disegnate le mura e individuabili gli edifici al di là di queste.

Nei primi decenni del Seicento la veduta di Pozzoserrato-Höefnagel offre spunto ad almeno due illustrazioni: quella di Enrico Hondius, edita nel 1622, con le didascalie relative agli edifici invertite, e quella pressoché contemporanea del Meissner, curiosa per illustrare in primo piano il proverbio “Aethiopem lavas”.

Ma essa si pone come modello a lungo, tanto da venire ripresa nei primi anni del Settecento dal Mortier per il suo Nouveau Théatre d’Italie, di cui vengono stampate ad Amsterdam due edizioni, nel 1704 e nel 1724: Trevigny ou Tarvisi ville de l’Etat d’Italie, come recita la didascalia, mostra vivaci figure di viandanti in primo piano, con la città al di là della spianata.

Gli edifici eminenti sono gli stessi delineati dal Pozzoserrato: partendo da ovest il campanile di San Teonisto; quindi l’inconfondibile profilo della chiesa di San Nicolò, caratterizzata dal “gradone” del tetto a due altezze diverse; segue il campanile della vicina chiesa del Gesù, e, accanto, la notevole mole di Palazzo Bressa, grandioso edificio eretto da Pietro Lombardo e dalle sue maestranze alla fine del Quattrocento, e demolito nei primi decenni dell’Ottocento. A seguire il tozzo campanile del duomo e, avvicinato a questo solo in virtù della prospettiva, il contenuto volume della chiesa di Santo Stefano con il suo campanile, indi l’alta torre detta “la Rossignona” e, prossimi alle mura, il campanile e la chiesa di San Martino.

Al centro del profilo cittadino svetta, richiamo simbolico della comunità, la “torre di città” in prossimità del Palazzo Comunale, il quale non è tuttavia individuabile con chiarezza; così come nel compatto brano urbano che segue, fitto di tetti scuri e di brevi timpani illuminati, non è possibile riconoscere con sicurezza le chiese in prossimità della cinta settentrionale: San Francesco, San Bartolomeo, Santa Maria Maddalena; imponente e segnalata da didascalia è invece la chiesa di Santa Margherita, anche per effetto della vicinanza, così come la più contenuta chiesa di San Paolo, sorgendo entrambe al di qua del Sile, nell’isola denominata, dopo l’addizione alla parte settentrionale, “città nova”.

È ancora debitore a questa presa di visione il panorama della città inserito da Marco Moro, nel 1851, nel suo volume Treviso e la sua provincia figurato in 24 vedute litografiche: il punto di vista è leggermente spostato verso occidente, iniziando comunque, a sinistra, con il campanile di San Teonisto e il profilo inconfondibile e imponente di San Nicolò.

La visione è tuttavia espressa in chiave naturalistica, con una casa contadina, orti e filari di alberi in primo piano: al di là del breve scorcio di campagna corre un trenino col suo bianco pennacchio di fumo, appena partito dalla stazione, i cui edifici – novità di pochi anni innanzi – sono descritti, nella loro semplice ed elegante architettura neoromanica, all’estremità destra della composizione. Nello sfondo la città è ben individuata nelle case leggermente scure nei tetti, luminose nelle facciate scandite da appena accennate finestre; il Duomo è perfettamente riconoscibile dalle cupole settecentesche e dalla cella, del tutto particolare, del suo campanile; svetta ancora la torre civica con il caratteristico cupolino, destinato alla de­molizione nella ristrutturazione del secondo Ottocento; dei campanili nella parte restante del profilo rimangono quello settecentesco, contenuto ed elegante, di Sant’Agostino, e quello romanico di San Martino.

Svettano, invece, alle due estremità dell’agglomerato urbano, ciminiere fu­manti, testimonianza di progresso – come del resto la ferrovia in primo piano – che porta manifatture dentro il perimetro dell’antica città: la quale si individua chiaramente delineata dalle basse mura, ben visibili perché ancora sussiste, pur ridotta, l’antistante spianata. Si può solo indovinare invece il corso del Sile ai piedi delle mura, ma la presenza di stagni in primo piano, a ridosso degli edifici della stazione, ricorda che Treviso è pur sempre “città d’acque”.

Il Sile è protagonista in panoramiche parziali, quali, ad esempio, due disegni di grande finitezza, tanto da poterli ritenere preparatori per incisioni non realizzate, eseguiti nei primi anni dell’Ottocento da Roberto Azzoni Avogadro, nobile e pittore dilettante: e sono L’ingresso di Porta Altinia, con l’elegante ponte ad arcate sul ramo inferiore del Sile e gli edifici cittadini – ben visibile la torre civica – sullo sfondo; e La chiesa di San Nicolò vista dal Canale della Polveriera, con una inconsueta veduta della chiesa dalla parte absidale, e un tratto delle mura decorato di stemmi in pietra a far da quinta in primo piano.

È di questi anni, esattamente del 1809, anche una Veduta della Regia città di Treviso, presa da S. Lazzaro sul Terraglio da un disegnatore d’eccezione: il “Capitano aiutante maggiore del Corpo Topografico Italiano” Basilio Lasinio. Noto sia come artista – decorò il salone da ballo di Ca’ Spineda nel 1790 – che come cartografo militare, prima al servizio della Serenissima, poi nel Regno d’Italia, il Lasinio è autore anche di altre vedute, come quella del Piave a Nervesa.

Per la veduta di Treviso del 1809 è presumibile sia salito sul campanile di San Lazzaro, posizione che gli permise un punto di visione rialzato: la città, vista ancora una volta da sud, è rimpicciolita dalla distanza, e se ne coglie l’intera estensione, ben individuata dalla linea decisa delle mura, entro la campagna perfettamente piatta e senza alberi.

Il nitido profilo permette di individuare quasi tutti i principali edifici e lo svettare di ben tredici campanili, oltre alla torre civica. Tra i palazzi si impone la mole di palazzo Bressa, al centro della composizione, ma si riconosce, a ridosso del campanile del duomo, anche il più contenuto volume di Palazzo Pola; inoltre, sotto la torre civica, la massa merlata dei palazzi comunali. Il Sile è ben individuato ai lati estremi, in entrata e in uscita dalla città. È l’ultima veduta della città “veneziana”, prima delle demolizioni di chiese e campanili che seguiranno a breve in conseguenza delle demanializzazioni napoleoniche, e della costruzione di edifici e coltivazioni d’alto fusto nella spianata.

Resterebbe da dire delle piante della città, a partire da quella ad olio su tela dei primi anni del Seicento conservata nelle raccolte civiche, che ne individua perfettamente la forma, e dà particolare risalto alle fortificazioni – mura, “rotonde”, porte, fossati e controscarpe – tanto da farla ritenere rilievo topografico ad uso militare; e tutte le numerose piante incise realizzate nel XVIII e XIX secolo: ma il di-scorso esulerebbe dalla presente ricognizione.

È interessante tuttavia rilevare come dalla pianta vengano ricavate delle vedute “a volo d’uccello”, rialzando prospetticamente gli edifici: in questo modo Francesco Zucchi offre una specie di aeropittura di Treviso per il volume del Salmon che descrive il “Dominio Veneto” nel 1753, in cui è individuato perfettamente il disegno della città e delineato sinteticamente l’agglomerato urbano.

Degna di menzione infine la veduta a volo d’uccello di grande formato dell’ingegnere municipale Antonio Monterumici, frutto di lunghi anni di paziente lavoro , terminata, come attesta la data su un pilastrino, nel 1917: attraverso tre arcate di una loggia ariosa, ingentilita da festoni di fiori e melograni recante al centro il sigillo dell’antico Comune (“Monti Musoni Ponto dominorque Naoni”), appare la città come vista da un alto campanile; una leggera acquarellatura permette di distinguere l’azzurro dei corsi d’acqua e il verde delle alberature e dei prati; pur individuati con due sole sfumature di ruggine gli edifici – chiese e campanili, case e palazzi, fab­briche e opifici – si presentano nella completezza delle architetture, ben riconoscibili anche quando risultano rimpicciolite prospetticamente dalla distanza.

Le mura quasi scompaiono, appiattite dal punto di vista fortemente rialzato, ma il disegno della città è ben evidenziato dai corsi d’acqua e dalle linee regolari delle strade di circonvallazione.

Nel corso del secolo Treviso muterà l’aspetto per effetto dei paurosi bombardamenti della seconda guerra mondiale, ma soprattutto per conseguenza di un’edilizia aggressiva che invaderà i varchi aperti dalle bombe nel centro storico, e intaserà gli spazi esterni a ridosso delle mura. La litografia di Gilberto Padovan editore su disegno di Guido Albanello ne dà precisa testimonianza: pressoché invisibili le mura e i corsi d’acqua, pur richiamati dalla didascalia, scompare la “forma urbis”.

Disegnati con accuratezza minuziosa gli edifici, la veduta cattura l’attenzione nel gioco dell’individuazione e permette di scoprire, accanto a quelli noti e cari – ecco a sinistra Santa Maria Maddalena e San Francesco, al centro la torre e gli edifici comunali, il campanile con il pronao e le cupole del Duomo, all’altro estremo San Nicolò – accanto agli edifici antichi, le architetture moderne dalle scandite geometrie, e la campagna lontana, ormai ridotta a poveri lacerti.

E dobbiamo dir grazie all’autore di aver depurato il panorama dalle tante gru che dovevano pur esserci nel momento della ripresa, e dalle troppe e ingombranti antenne telefoniche. D’altra parte è pur mutata l’identità sociale della “piccola Atene” (se mai lo fu veramente!): perché dunque stupirci, se, affacciati a questo ideale balcone, stentiamo a riconoscere la nostra città?