L’orgoglio delle torri fragili L’evoluzione della percezione della forma urbis di Belluno

(di Marco Perale)

dsc_0422-bellunoMa è hormai tempo che passiamo alla città, che è cinta di due man di muraglia merlata e torreggiata all’antica1. È così che descrive Belluno, nel 1640, il canonico Giovan Battista Barpo (1584-1649), prolifico scrittore di precisi manuali di “galateo” burocratico (il Canonico politico)2 così come di trattati prearcadico-goldoniani sulle delizie della villeggiatura3.

Una skyline apparentemente scontata, classica per non dire banale nel campo lungo del panorama italiano, comune ad ogni città dal passato medievale. Ma cosa c’è di vero, di fotografico nell’immagine seicentesca di un profilo urbano torreggiato all’antica, e quanto invece di volontà frustrata confusa col ricordo, di orgoglio decaduto e velleitario, di echi lontani di Ariosto e di Cervantes?

La questione è complessa, perché gli annali della storia bellunese raccontano impietosi che fin dal 1466 Venezia, dopo aver già fatto abbattere nel 1421 gli oltre cinquanta castelli che presidiavano le valli del Piave e del Cordevole, aveva alzato il tiro contro l’irrequieta nobiltà di terraferma ordinando la demolizione anche delle torri urbane che ancora svettavano sulle antiche dimore dei maggiorenti dolomitici4. Quello che il canonico Barpo raccontava all’ipotetico viaggiatore (e non siamo lontani, cronologicamente, dalla prima “guida turistica” di Venezia pubblicata a fine ’500 da Francesco Sansovino) era quindi una città immaginaria (tre secoli prima delle “città invisibili” di Calvino) o quantomeno già scomparsa?

Da bravo secentista, il nostro canonico gioca abilmente tra grammatica e sintassi: torreggiata all’antica è la città o la doppia cinta muraria? Ogni bellunese di allora sapeva bene che il vecchio torrione angolare (il dojon eretto ancora in epoca franca) e una fila di tozze e basse fortificazioni squadrate circondavano una città architettonicamente ferita e mutilata dai ricorrenti terremoti prima ancora che dalle odiose imposizioni veneziane, ma con l’ambiguità del suo testo il Barpo ha partorito una descrizione sottilmente capace di ingannare ogni aspirante visitatore, oggi come allora.

Ed è proprio chi arriva da lontano, chi non la conosce con quella consuetudine quotidiana che rende quasi invisibile ciò che da sempre si è visto e sedimentato, che ha spesso aiutato i bellunesi ad inquadrare, e forse a intuire (capire è termine eccessivo) l’essenza, o almeno l’immagine di una città sospesa tra l’acqua del Piave e le prime Dolomiti, sintesi icastica di un Veneto irrequieto e ancora in cerca di identità, stretto com’è (e come è sempre stato) tra un’inarrivabile ma onnipresente Venezia e i grandi im­peri lontani e vicinissimi d’oltralpe.

La più antica attestazione di una percezione soggettiva della forma urbis di Belluno è quella lasciata dall’eques romano Caio Flavio Ostilio Sertoriano, nell’epigrafe incisa sul sarcofago figurato di età severiana conservato oggi sotto il portico interno di Palazzo Crepadona.

La consueta, un po’ pedante citazione delle ascendenze familiari sue e della moglie, tipica di ogni epigrafe funeraria latina, ha infatti un guizzo finale: si chiude con un enigmatico testo greco che, nell’accomiatarsi dalla vita, lancia un ultimo sguardo, quasi un estremo saluto.

A chi o a che cosa? Non sono certo i parenti ma neppure i templi, le statue o gli edifici pubblici di un piccolo municipium posto all’estremo settentrione dell’angulus venetus che Flavio Ostilio ricorda, quanto invece la straordinaria cerchia di monti che, oggi come allora, fa da sfondo alle vicende di Belluno: montium semper memor, come gli umanisti cinquecenteschi hanno tradotto in latino il suo testo greco, cioè porto con me per sempre il ricordo di queste montagne5.

Memoria soggettiva, presto divenuta patrimonio identitario collettivo: fin dal primo Cinquecento il sarcofago di Flavio Ostilio fu portato solennemente in Piazza del Duomo e, come Antenore a Padova, divenne la reliquia laica attorno alla quale si formò la consapevolezza, tanto frustrata quanto orgogliosa, di un’autonomia fra­gile ma dalle radici profonde.

Il lungo inverno dell’alto medioevo bellunese non ha lasciato immagini di sé e l’unica traccia che consente di avere almeno un’intuizione di quella che era la percezione urbana del tempo è la sintesi grafica, stereotipata, offerta dai più antichi sigilli comunali, con la raffigurazione di una cinta muraria con tre torri merlate6: troppo poco per poterne trarre indicazioni precise, ma è interessante l’attestazione di un’idea della città come luogo che offre difesa, contro ogni nemico esterno, naturalmente, ma forse anche contro una natura che nei secoli bui del crollo demografico tardoantico e altomedievale aveva nuovamente stretto d’assedio le poche città sopravvissute al tracollo del mondo romano.

Mentre il paesaggio circostante si fa incombente e indefinito la montagna, matrigna più che madre, viene quindi totalmente separata, allontanandosi dall’orizzonte urbano ed eclissandosi per secoli.

È questa la sintesi compendiaria di Belluno che compare ancora, assieme alle altre città conquistate all’inizio del Trecento, nel monumento funebre di Cangrande della Scala a Verona, ed è sempre questo, una cerchia murata sullo sfondo delle pareti dolomitiche, lontane e inaccessibili, il sunto grafico dell’immagine di Belluno offerto ormai nel pieno autunno del medioevo, nel 1450, dalla mappa di fondazione della Certosa di Vedana7, a conferma di una percezione in cui la funzione era ancora assolutamente prevalente rispetto ad ogni altro elemento per definire la caratterizzazione insieme sufficiente e necessaria ad identificare Belluno rispetto al territorio circostante.

È solo a partire dal Rinascimento che compaiono, in parallelo, le prime immagini dei singoli elementi che concorrono a formare la città, magari sullo sfondo di qualche grande quadro di argomento sacro, unitamente alle prime descrizioni letterarie.

Le tracce più antiche, e forse anche più suggestive, sono quelle lasciate dagli umanisti. Il maggiore (o quantomeno il più prolifico) tra loro, cioè Pierio Valeriano (1477-1558), in più occasioni ha offerto una descrizione di come appariva Belluno nella prima metà del Cinquecento.

Ne parla una prima volta in un testo poetico – datato 1512, scritto quando era esule a Roma durante le guerre cambraiche – in cui sulle ali di un nostalgico ricordo descrive a volo d’uccello l’immagine che si offre a chi per la prima volta arriva là dove l’Anasso (cioè il Piave) che scende veloce colpisce l’antica Belluno con le sue onde rimbombanti ma continua presentando anche la città con la sua valle amena, le montagne e la fertile terra e infine la cattedrale, un grande tempio con ogni sorta di marmo8.

Un’altra sua composizione in versi giovanile, databile anche in questo caso al primissimo Cinquecento, descrive Belluno presentando le alte mura cittadine lambite dall’insenatura ricurva del Piave9 mentre di gran lunga più originale è la terza ed ultima descrizione che ne offre, all’interno delle Antiquitates Bellunenses lasciate manoscritte e che furono pubblicate solo nel 1620 da un altro letterato di grande valore quale fu il vescovo Alvise Lollino.

Pierio Valeriano è il primo bellunese (o quantomeno è il primo di cui ci sia rimasta l’attestazione di una riflessione articolata) che si pone coscientemente e compiutamente il problema della forma urbis, tentandone una razionalizzazione ancora intrisa di simbologie animali me­dievali, ma di grande coraggio intellettuale.

Nel commentare i rilievi che ornano il citato sarcofago di Flavio Ostilio (e il Valeriano ricorda di essere stato giovane testimone del suo ritrovamento durante gli scavi delle fondamenta di Santo Stefano) si sofferma su una scena di caccia al cervo, nella quale suggerisce che gli antichi avessero simbolicamente voluto rappresentare la fondazione di Belluno, legata ad una cattura o ad un incontro o a un sacrificio, come era nella tradizione mitologica di altre città antiche (ad Efeso un cinghiale, Enea con un maiale, Cadmo una vitella, etc.): questo, gente bellunese, è infatti l’aspetto della vostra città, che come si può facilmente comprendere Ostilio stesso ha voluto sintetizzare: la città infatti è simile alla testa di un cervo, proprio come Brindisi (…) o, se mi è consentito il paragone, come la grande Bisanzio (…).

Quindi passa a descrivere dettagliatamente la forma triangolare del promontorio modellato dal Piave e dal vicino torrente Ardo (osservato molto probabilmente dai rilievi a sud della città, salendo verso il Nevegàl: il Valeriano era pievano di Castion!), con le due piazze a settentrione (le attuali Piazza Martiri e Vittorio Emanuele) poste di lato come le orecchie del cervo, le due strade che se ne dipartono in direzioni opposte, verso Feltre e Ponte nelle Alpi, lunghe e articolate come le corna dell’animale, le due fortezze settentrionali del Castello e del Torrione poste come gli occhi a guardia del corpo ed infine il porto fluviale di Borgo Piave che usciva a sud dalla cinta muraria per lambire l’acqua del fiume, proprio come la lingua del cervo all’abbeverata, che si sporge dall’arco dei denti10.

Forma significante, insomma, e rispondente ad un modello preordinato dallo stesso fondatore. Con tutti i limiti del suo tempo (si ricordino le analoghe trattazioni coeve, e prima ancora medievali, su Roma che avrebbe ricalcato la forma di un leone, o Venezia di un pesce), un’intuizione metodologica di grande interesse.

Si è già detto in apertura della descrizione turistica offerta nel primo Seicento dal canonico Barpo. La prima raffigurazione pittorica di Belluno, quale si intravede in lontananza in uno dei pannelli della predella cinquecentesca aggiunta al più antico polittico di San Martino in Cattedrale11, non si discosta da quella medesima immagine di una città, che è cinta di due man di muraglia merlata e torreggiata all’antica, mentre più interessanti – per la resa del dettaglio ed il contesto paesaggistico intorno – sono invece due tele seicentesche.

La prima, datata 1662 e opera di Fran­cesco Frigimelica il giovane, è conservata oggi al Museo Civico12, e presenta san Bernardino da Siena stante, a figura intera, raffigurato con il monogramma cristologico IHS in mano ed ai piedi le consuete tre tiare vescovili che aveva rifiutato, sullo sfondo di una veduta urbana che unisce il particolare cronachistico della predica tenuta proprio dal francescano senese nel 1423 in una Belluno che il pittore presenta coronata da una cerchia di monti che merita un’analisi a sé stante.

La resa non è infatti fotografica, perchè il profilo non cerca neppure sommariamente di rappresentare il panorama montano quale si presenta alle spalle della città, quindi è evidente che l’elemento naturale assume un ruolo simbolico: la Belluno socialmente pacificata dall’azione di san Bernardino era, ed è, una compenetrazione di architettura urbana e di montagne incombenti, di mura cittadine e di muraglie inabitate.

La presenza del santo, cui la città dedicò un altare in duomo per il suo ruolo nella riappacificazione delle fazioni da secoli in sanguinoso contrasto, funge da catalizzatore di questa doppia, inconciliabile (e paradossalmente, necessariamente conciliata a Belluno) natura – sempre in equilibrio precariamente instabile – tra urbanitas e ferinitas, tra abitato e inabitabile, che era ed è l’elemento identitario fondante della coscienza urbana di Belluno.

Fino alla fine del Cinquecento il paesaggio – ogni paesaggio, anche urbano – era sempre rimasto sullo sfondo delle vicende umane (o sovrumane) raffigurate in quadri, sculture, disegni o sigilli. È solo a partire dal XVII secolo che la veduta acquista autonomia di genere, e se a Ve­­­­nezia questo vale per fissare il ricordo di particolari feste o processioni, tanto laiche quanto religiose, o ben presto di veri e propri panorami – da offrire a chi voleva (e poteva) portarsi a casa, in Francia, Germania, Spagna o Inghilterra, un ricordo tangibile del Grand Tour – nel caso di Belluno la tipologia del quadro di paesaggio nasce con una diversa funzione, altrettanto precisa.

Nell’occasione della partenza da Belluno dei Rettori veneziani che ogni 16/18 mesi si avvicendavano al governo della città, era infatti invalso l’uso di solennizzare il commiato tributando loro l’onore di incastonarne il busto, in bronzo o di pietra, sulla facciata del Palazzo dei Rettori o del Maggior Consiglio cittadino, oppure di dedicare all’uscente una raccolta poetica o ancora – ed è questo che più interessa in questa sede – di offrire a chi tornava a Venezia un oggetto capace di fissare il ricordo del periodo trascorso al governo di Belluno.

Sono relativamente numerose le commissioni documentate di vedute della città (anche a firma di artisti di prima grandezza, da Palma il Giovane fino a Sebastiano Ricci) che tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Settecento vennero realizzate per essere offerte in dono dalla città al Rettore uscente13. Ne è rimasto (o quantomeno ne è noto) un unico esemplare, commissionato nel 1690 al pittore Domenico Falce per il Rettore Giovanni Antonio Boldù14.

Protagonista assoluta è la città, con i suoi tetti rossi e le strade e le piazze bianche, incastonata nel verde incontaminato del paesaggio circostante, punteggiato appena da qualche casa isolata. Le montagna sullo sfondo sono ancora stereotipate e indefinite, tranne forse il monte Serva, sulla destra, la cui incombente mole, tozzamente tricuspidata, è chiaramente riconoscibile.

Quello che interessa fissare, all’artista e forse anche ai suoi committenti, è invece proprio e solo il dettaglio del paesaggio urbano, fotografato casa per casa, quasi a condurre lo sguardo lungo le vie già percorse a piedi, tra piazze e fontane, tra chiese e palazzi, dal centro murato fino ai borghi suburbani. Una veduta quasi metafisica, di una città disabitata con l’eccezione aneddotica della carrozza e del calesse che attraversano un Campedèl altrimenti de­serto o delle zattere che navigano sulle acque del Piave.

Ma quando Falce stende sulla tela la sua veduta urbana di Belluno, anche ai piedi delle Dolomiti è già iniziata la grande stagione dell’incisione, sull’onda di un mercato che andava allargando il numero di quanti potevano desiderare – e permettersi – l’acquisto di un’immagine fino ad allora riservata a una più ristretta élite, sviluppando una scuola locale che tra gli allievi (e spesso parenti) di Sebastiano e Marco Ricci annovera nomi quali quelli di Francesco Monaco e Giacinto Brasiola, o dei fratelli Marco Sebastiano e Giuliano Giampiccoli, la cui ricca produzione è già stata ampiamente documentata e analizzata15.

Tra i loro lavori spicca naturalmente la serie dedicata dal Monaco ai maggiori palazzi bellunesi16 – eco alpina di analoghe e ben maggiori produzioni seriali veneziane: si pensi a Luca Carlevarijs – ma tale attenzione analitica, concentrata sui singoli edifici, trova un parallelo di più vasto respiro nelle vedute urbane che ormai sistematicamente offrono una visione d’insieme della skyline urbana compresa (o compressa?) tra la linea sinuosa del Piave e il profilo, via via sempre più preciso, della cerchia montana sullo sfondo.

Proprio il corpus incisorio offre in sequenza la migliore attestazione del progressivo risvegliarsi di questa nuova attenzione all’elemento naturale del paesaggio in rapporto allo spazio urbano: se nel Seicento le montagne sono solo un’ordinata e quasi surrealistica doppia fila di piramidi appena smussate, così come compaiono nella raffigurazione del Bertelli nel 162917 poi ripresa ancora, senza sostanziali modifiche, dal Mortier nel 170418 o da Raffaello Savonarola che praticamente la copia ancora acriticamente nel 171319, è solo con il Coronelli, cioè a partire dal 1708, che la cerchia delle montagne comincia a mettere a fuoco proporzioni e rapporti spaziali tra la città e i rilievi circostanti20, fino a giungere con Giacinto Brasiola, ma solo oltre la metà del secolo, nel 1752, ad una rappresentazione finalmente attenta al reale, con un preciso – e voluto – ri­mando reciproco tra il profilo turrito della città, le creste dolomitiche alle sue spalle e la linea scura e frastagliata degli alberi e dei boschi in primo piano21.

La lezione del Brasiola farà scuola per oltre cinquant’anni, venendo ripresa già nel 1756 dall’edizione napoletana del Salmon22 e poi successivamente dal modesto Bartolomeo Borghi nel 177323 fino al ben più dotato Marco Sebastiano Giampiccoli all’aprirsi del nuovo secolo, nel 180024.

Come si è detto, spesso è proprio chi arriva a Belluno o chi vi torna da lontano che riesce ad alzare lo sguardo e a cogliere il rapporto spaziale, prospettico, tra la città e quanto la circonda. Così dimostra di sapere e di volere fare Marco Ricci, che ha lasciato in più di un caso, tanto con il disegno25 quanto con la sua tecnica della tempera su pelle di capretto26 o in un divertito virtuosismo su tela27, l’immagine della città vista dall’ansa del Piave a Lambioi, con l’abside del duomo, le torri del castello e i campanili che si stagliano contro la massa appena delineata del monte Dolada.

Eppure il Settecento dei due Ricci (ma anche di Gaspare Diziani e Andrea Brustolon), così come della grande stagione incisoria, è anche il tempo dei campielli goldoniani o dei salotti e delle scene di genere di un Alessandro Longhi, ed è ancora una volta questo lo sguardo, teatralmente complice ma solamente urbano e sociale, non vedutistico, che si coglie osservando la Caccia ai tori in piazza Campitello dipinta entro la prima metà del secolo da un anonimo riccesco28, un quadro che lascia appena intravedere la collocazione della piazza tra i primi monti e l’apertura della valle in cui si colloca la scena dell’estemporanea corrida bellunese, pur senza trascurare, anche in questo caso come già nelle incisioni del Monaco, una certa attenzione muratoriana alle mura cittadine ed al castello, ormai vistosamente defunzionalizzati, colti in un una sorta di preromantico disfacimento.

Proprio l’inizio del nuovo secolo si caratterizza infatti per la scomparsa – fisica prima ancora che mentale – di tanta parte della città antica: il castello e lunghi tratti delle mura vengono sistematicamente demoliti nel corso del 1804, l’antico palazzo comunale, la quattrocentesca Caminada, viene smontata e riduttivamente trasformata, secondo un registro banalmente neogotico, nell’odierno Municipio, fino alla grande ferita inferta dal terremoto del 1873.

In mezzo, tra Encyclopédie e preromanticismo, si può trovare un’isolata ri­presa della riflessione sulla forma urbis di Belluno: dopo la testa di cervo che vi vedeva l’umanista Pierio Valeriano, è uno scorpione l’immagine che Belluno suscita in Alvise Cicogna. Nelle sue Poesie veneziane del 1830, stese in forma di epistole, proprio la lettera IV spiega in endecasillabi dialettali come La pianta del scarpion forma la vera / figura: piazza el gropo, coa po, e zate / xe San Stefano, el borgo, e Mezzatera. / Inoltre do borgate, che ne xe ingrate / una sul’ Ardo, e l’altra sula Piave / l’onor dela più bela se combate29.

Ma l’Ottocento, proseguendo nel tentativo di fissare le tappe del formarsi dell’immagine della città (e della relativa con­sa­pevolezza), è il secolo di Ippolito Caffi, colui che avrà il curioso compito di traghettare la pittura veneta dall’eredità dei grandi vedutisti fino alle soglie dell’Impressionismo. Caffi, nel suo rapporto con la città sa essere realistico e quasi aneddotico, come nelle rare incisioni che ci attestano le fasi costruttive del ponte sul Piave realizzato alla fine degli anni Trenta dal governo asburgico30, mentre sa utilizzare altri registri per adattarsi probabilmente alle atmosfere volute dal committente di turno.

È il caso, ad esempio, dei dipinti che raffigurano proprio la skyline di Belluno colta non sullo sfondo consueto delle creste dolomitiche ma in relazione con le colline dei rilievi prealpini, dal Nevegal fino al Monte Cesen31, assecondando uno sguardo che non a caso sarà quello che vorrà ricordare di Belluno il Regio Delegato Provinciale a cui verrà dedicata la coppia di incisioni tratte dai quadri del Caffi32: così come i Rettori veneziani, saliti fra i monti dalla laguna, portavano a casa il ricordo di una città sullo sfondo di guglie e pareti rocciose, in modo uguale e contrario i nuovi governanti austriaci volevano ricordare una città già aperta verso il dolce paesaggio collinare del resto del Veneto.

Il secondo Ottocento sarà di nuovo chiuso nello spazio urbano: è il teatro sociale del Risorgimento che viene messo in scena, nei palcoscenici cittadini, da Osvaldo Monti33, così come Alessandro Seffer testimonia già il nuovo rito del mostrarsi, offerto dalla borghesia nel nuovo spazio di Piazza Campitello34: gesti eroici e quotidianità, cronaca e storia, tutto si svolge nei nuovi luoghi pubblici, senza alcuna elaborazione del nuovo rapporto spaziale e coloristico tra case e paesaggio quale si andava elaborando anche in Italia in parallelo alla grande stagione degli Im­pres­sionisti.

Sarà il Novecento ad offrire, ancora una volta, lo sguardo nuovo di un Piero Jahier che, ufficiale a Belluno durante la Grande Guerra, canta nei suoi versi l’angelo verderame che dalla punta del campanile del duomo vigila sulla città e su tutta la vallata. Ma sono già gli anni in cui il giovanissimo Dino Buzzati, nato esattamente sulla sponda del Piave da cui si può ammirare intera la visione di Belluno sullo sfondo delle prime Dolomiti, comincia a tessere quelle sue trame letterarie che legheranno in modo inestricabile città e montagna, come in quel suo quadro – straordinario – dove il Duomo di Milano è una cattedrale di roccia, senza svelare quale delle due immagini sia la finzione e quale la realtà. Buzzati, nella sua inesauribile ricerca grafica, ha interpretato spesso le montagne della sua Belluno, cui ritornava ogni anno, ma non la città, col suo profilo.

Lo spazio urbano, per lui, era Milano. Eppure proprio le grandi muraglie dolomitiche, a partire dalla parete meridionale della Schiara (la montagna della mia vita come la definì un giorno) sono diventate la chiave capace di mettere in comunicazione natura irrazionale e città degli uomini, luogo di incontro di opposti inconciliabili ma sempre contaminati. Un po’ come Belluno.

L’inizio del nuovo secolo, proprio nel centenario della nascita di Dino Buzzati, offre ora un nuovo tassello che viene a continuare la traccia lasciata sulla carta dall’immagine della città contro lo scorrere del tempo. Il lavoro calligrafico di Guido Albarello, unito al coraggio im­pren­ditoriale di Gilberto Padovan, ha fissato una nuova imago urbis che raccoglie il testimone degli incisori di ieri per passarlo, con il suo carico di storia, alle generazioni future.

Note

  1. G. B. Barpo, Descrittione di Cividal di Belluno e suo territorio, Belluno, Vieceri, 1640 (= Belluno, Nuovi Sentieri, 1975), pp. non numerate [ma 32].
  2. Idem, Del canonico politico, a cura di C. Tagliabò Padovan, Belluno, Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali, 1996.
  3. Idem, Le delitie et i frutti dell’agricoltura e della villa, Venezia, Sarzina, 1634.
  4. M. Perale, I leoni di San Marco nei territori di Belluno, Feltre e Cadore. Comparsa, evoluzione e distruzione: elementi per una ricerca, introduzione a A. Rizzi, Leoni di montagna. L’emblema veneto nei territori di Belluno Feltre e Cadore, Feltre, Pilotto, 1997, pp. 13- 35.
  5. M. Perale, Il Parco nel Medioevo. Percezione e fruizione della montagna dall’età romana al XV secolo, in Un Parco per l’uomo. Dieci anni di vita del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi, a cura di E. Cason Angelini, Verona, Cierre, 2004, pp. 271-285.
  6. F. Miari, Dizionario storico artistico letterario bellunese, Belluno, Deliberali, 1843, rist. anast. Bologna, Forni, 1979, p. 155: Sigillo de’Vescovi. Allorché i vescovi erano capi civili della città di Belluno portavano nel loro sigillo l’impronta del palazzo vescovile, che aveva tre torri e il pastorale, denotante il loro dominio. Nel contorno eravi la leggenda “Sigillum civitatis Belluni”.
  7. La Certosa di Vedana. Storia, cultura e arte in un ambiente delle Prealpi bellunesi, a cura di L. S. Magoga – F. Marin, Firenze, Olschki, 1998, pp. XXI-XXIII, con una grande tavola a colori che riproduce fotograficamente la pergamena quattrocentesca.
  8. G. P. Dalle Fosse (Pierio Valeriano), Joathas rotatus, Roma, Estienne Guillery e Ercole Nani, 1512, libro III, vv. 62-71.
  9. Idem, Amores, Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1549, libro V, pp. 84r-87r; v. 47 (moenia curvatis quae flexibus ambit Anaxus) e 59-60 (Urbs clivo fondata alto, plano ipsa locata / plurima qua erumpit dulcibus unda tubis).
  10. Idem, Antiquitatum bellunensium sermones quattuor, Venezia, Sarzina, 1620, sermo I, pp. 16-18.
  11. F. Vizzutti, La cattedrale di Belluno. Catalogo del patrimonio storico-artistico, Belluno, Tipografia Piave, 1995, pp. 214-217.
  12. M. Lucco, Catalogo del Museo Civico di Belluno. I dipinti, Vicenza, Neri Pozza, 1983, cat. n. 28, p. 20.
  13. M. Perale, Il Palazzo dei Rettori di Belluno, Belluno, Alessandro Tarantola, 2000, pp. 86-87.
  14. Dello stesso Falce è sopravvissuta, curiosamente, un’analoga veduta a volo di uccello anche della vicina città di Feltre. Cfr. la riproduzione in E. De Nard, Belluno e Feltre nelle antiche stampe, Cornuda (Tv), Antiga, 1994, p. 14.
  15. E. De Nard, Belluno e Feltre nelle antiche stampe, ad indicem.
  16. Ivi, pp. 38-51; è particolarmente curioso il rapporto, a metà strada tra la documentazione muratoriana e la volontà illuminista, che in più di un caso è stato dimostrato tra il Monaco e suoi soggetti, che spesso “corregge” e razionalizza: cfr. M. Perale, Dalle origini al XV secolo, e Una storia di pietra. I rilievi di Palazzo Reviviscar: confronti tipologici e indizi cronologici per una nuova proposta interpretativa, in Palazzo Reviviscar, a cura di A. Alpago Novello, Belluno, Associazione fra gli Industriali della Provincia di Belluno, 2001, pp. 55-83 e 101-126.
  17. E. De Nard, Belluno e Feltre nelle antiche stampe, pp. 26-27.
  18. Ivi, pp. 28-29.
  19. Ivi, pp. 30-31.
  20. Ivi, pp. 32-33.
  21. Ivi, pp. 52-53.
  22. Ivi, pp. 56-57.
  23. Ivi, pp. 58-59.
  24. Ivi, pp. 65-66. Più originale nella raffigurazione dello spazio urbano, colto da un’insolita prospettiva est-ovest invece che dalla consueta visuale da sud, è un’altra incisione giovanile dello stesso Giampiccoli (ivi, p. 62), che De Nard data al 1780, in cui peraltro l’attenzione ad una raffigurazione realistica delle montagne sullo sfondo risulta molto minore.
  25. G. M. Pilo, Marco Ricci, Catalogo della mostra di Bassano, 1.9-10.11 1963, Venezia, Alfieri, p. 73, cat. n. 138. Il disegno appartiene alle collezioni reali inglesi e si trova nel Castello di Windsor, Royal library.
  26. Ivi, p. 52, cat. n. 81. Anche questa tempera è al castello di Windsor.
  27. Ivi, p. 23, cat. n. 28: si tratta di una versione della nota “prova d’opera” in cui i personaggi sono raffigurati all’interno di una stanza che ha sulla parete un quadro in cui si vede esattamente questa medesima raffigurazione di Belluno vista da sud-ovest. In questo caso la collocazione attestata nel 1963 era Londra, collezione Eric Charles Graham. Non si contano, invece, almeno in questa sede, le numerosissime citazioni di montagne bellunesi che compaiono in molti altri quadri dei seguaci di Marco Ricci: cfr. ad esempio D. Succi-A. Delneri, Marco Ricci e il paesaggio veneto del Settecento, Catalogo della mostra di Belluno, 15.5-22.8 1993, Milano, Electa, 1993, con due opere di Antonio Diziani: p. 292, con un’evidente citazione del gruppo montuoso del Pizzocco-Monti del Sole visti da Belluno; o p. 293, con una probabile citazione delle Marmarole.
  28. M. Lucco, Catalogo del Museo Civico di Belluno. I dipinti, p. 34, cat. n. 66.
  29. A. Cicogna, Poesie veneziane, Feltre, Marsura, 1830, pp. 31-42; i versi citati sono alle pp. 32-33.
  30. E. De Nard, Belluno e Feltre nelle antiche stampe, pp.84-87.
  31. A. Scarpa, Caffi. Luci del Mediterraneo, Catalogo della mostra, Belluno, 1.10.2005-22.1.2006, Milano, Skira, 2005, pp. 47 e 108-109.
  32. E. De Nard, Belluno e Feltre nelle antiche stampe, pp.91-93.
  33. M. Lucco, Catalogo del Museo Civico di Belluno. I dipinti, pp. 51-52, cat. nn. 115-118.
  34. Ivi, p. 52, cat. n. 123.