Chiesa e chiostro di San Pietro

(Elisanna Matteazzi Chiesa)

Chiesa e chiostro di San Pietro a VicenzaqPassato il Ponte degli Angeli, il popoloso quartiere di San Pietro è chiamato familiarmente dai vicentini il “Trastevere”: un’evidente citazione romana, solo che da noi si tratta del fiume Bacchiglione, di ben minore importanza storica e geografica del Tevere.Gli abitanti della zona portano comunque con orgoglio il loro nome di “trasteverini” e animano con bancarelle, canti e bevute l’annuale festa del Trastevere.

Dopo il ponte sulla destra, percorso l’omonima contrà, sulla sinistra sorge la parrocchiale di San Pietro, la cui vita millenaria si intreccia con la storia della città. Si accede al sagrato per mezzo di un’ampia scalinata su due lati e da questo, salendo quattro gradini, si giunge allo spoglio portale.

La liscia, semplice facciata è spaziata da quattro lesene corinzie: tra gli intercolumni lo spazio è interrotto da due finestre verticali: la misura delle finestre, della porta, delle colonne, creano l’equilibrio armonico del prospetto concluso da un timpano dove campeggia il bassorilievo con lo stemma pontificio delle chiavi di San Pietro, affiancato dalle figure allegoriche della Fede e della Speranza.

Il timpano è coronato da tre statue: San Pietro sulla sommità con ai lati San Paolo (a sinistra) e Sant’Andrea (a destra).

Nel secolo IX sorgeva qui un monastero benedettino, edificato forse vicino a una piccola chiesa preesistente a pianta rettangolare, eretta tra il VII e l’VIII secolo (età longobarda), distrutta nel X secolo, durante l’invasione degli Ungheri. Il monastero, dapprima maschile, fu abitato in seguito da monache, che lo resero ricco di possedimenti a opera di quelle badesse di origini nobiliari, che ebbero parte nella vita cittadina, considerazione al pari di autorità, tanto che le Benedettine di San Pietro esercitavano il potere su vasti territori, (resta il toponimo Grumolo delle Abbadesse, a una decina di chilometri da Vicenza, dove le badesse andavano a cavallo a visitare le loro vaste proprietà).

Ricostruito nella prima metà dell’anno Mille, il nuovo edificio doveva essere sempre a pianta rettangolare, con tre navate.

La Pianta Angelica che tante notizie ci dà sulla città alla fine del XVI secolo ci mostra una chiesa rettangolare, con statue alla sommità del timpano e sulla facciata un portichetto e tre rosoni a segnare le tre navate interne. Sono ben visibili il campanile e il chiostro del convento.

Ma già sul finire del Cinquecento la chiesa subì un altro intervento di abbellimento. Scomparsi il portichetto e i tre rosoni la facciata prese l’aspetto attuale.

L’interno a pianta rettangolare, è diviso da tre navate separate da colonne con capitelli a caulicoli angolari e foglie d’acanto, reggenti archi a tutto sesto dalla luce assai ampia. Un simile arco conclude la navata maggiore e si apre sul vasto presbiterio quadrilatero, rialzato di un gradino e che nella parte centrale termina nell’abside. I quattro altari delle navate sono opera della bottega degli Albanese, come l’altare maggiore dell’abside.

Nell’altare maggiore, dove è stata collocata negli ultimi venti anni, spostandola da uno degli altari delle navate laterali, la pala di Giovan Battista Zelotti raffigura “La consegna delle chiavi”, opera troppo statica nell’insieme, alla quale dà una falsa impressione di movimento il gruppo di maniera intorno alla figura centrale del Cristo. Più interessante lo sfondo architettonico di evidente derivazione palladiana: si riconoscono infatti un angolo di palazzo Chiericati e la cupola del Duomo.

Primo altare a sinistra: “Adorazione dei pastori”, dipinto di qualità di Francesco Maffei, forse l’opera più importante della chiesa: il cielo e la terra sono affollati di figure: cherubini e angeli volanti verso il gruppo della Natività dall’impasto di colori caldi, intorno al quale si raccolgono i pastori e il bell’angelo ad ali spiegate. Segue il monumento a Bernardino Trabazio, un dotto sacerdote umanista, morto nel 1588: l’opera è della bottega del Pedemuro.

Se gli Albanese lasciarono importanti testimonianze scultoree, i Maganza trionfarono a San Pietro con la pittura e nella chiesa tenevano la tomba di famiglia, come ricorda una lapide nella navata sinistra.

Chiude infatti la navata sinistra il “Martirio di Santa Giustina, di Giambattista Maganza il giovane, con probabile collaborazione del padre Alessandro, di impianto veronesiano, privo peraltro del respiro del maestro.

Primo altare a destra: sopra la mensa di marmi policromi, con ai lati due putti scolpiti, la pala rappresenta “Compianto di Cristo” di Alessandro Maganza. Opera nell’ubbidienza dei canoni della Controriforma, la scena della Deposizione, dove l’unica luce colpisce il corpo bianco di Cristo, che si stacca dal tenebroso sfondo rupestre e dal cielo temporalesco.

Le stesse tonalità scure si ritrovano nelle figure raccolte intorno al Cristo deposto, tra le quali emerge il volto addolorato della Madre.

Sulla stessa parete segue il “Martirio di Sant’Andrea” attribuito ad Alessandro Maganza, opera di non grande significato sia per l’impianto alquanto banale che per l’uniformità coloristica.

Ancora sulla parete destra “San Benedetto riceve San Mauro fanciullo”, di fattura maganzesca potrebbe essere attribuito a Giambattista o anche allo stesso Alessandro, e datato negli ultimi anni del Cinquecento.

Nella controfacciata, invero posto troppo in alto, – un tempo collocato nell’intercolumnio mediano del paramento absidale – il vasto dipinto attribuito ad Alessandro Maganza “Dio dà le corone ai Santi Pietro e Paolo”, non offre una buona visione della figura solenne di Cristo e dei Santi, inginocchiati in estatica devozione.

L’attribuzione può sollevare alcuni dubbi perché non si riconosce la mano del maestro, ma la composizione è bene strutturata nei personaggi armonicamente distribuiti a fare da quinte alla scena centrale, anche se le figure mancano di movimento.

Alessandro potrebbe avere impostato la scena e dipinto i tre volti di Cristo e degli Apostoli, lasciando al figlio Vincenzo e ad allievi il compito di terminare l’opera.

Nella navata di destra la grata “comunichina” in ferro battuto, incorniciata entro un ricco elemento architettonico di marmi, eseguita verso la fine del secolo XVII nella bottega del Marinali. La grata comunicava con il convento e permetteva alla monache di assistere alle funzioni religiose.

Gli altari del Sacro Cuore (navata di destra) e della Madonna (a sinistra) sono affiancate da quattro statue antiche, rispettivamente San Giacomo e Sant’Andrea, riconducibili al Cinquecento e San Tommaso e la Madonna di epoca seicentesca.

Soppresso il convento nel 1810, l’edificio venne acquistato da Ottavio Trento. Forse per acquistare dei meriti dopo una vita alquanto dissoluta il Trento fondò una casa per lavoratori indigenti o disoccupati che, in seguito alla industrializzazione degli opifici, rimanevano senza lavoro.

Appena entrati, un locale sulla destra ospita il monumento al benefattore, unica opera di Antonio Canova a Vicenza.

La stele raffigura con formale eleganza la statua della Felicità che scrive sul marmo i pregi di Ottavio Trento.

Di particolare interesse è il chiostro, a due piani: la parte inferiore, nel caldo colore del cotto, appartiene alla costruzione quattrocentesca, gli archi sono decorati a elementi floreali incorniciati da torciglioni sporgenti. L’antiestetico muretto che toglie slancio alle colonne è infelice esito dell’ultimo restauro.

La parte superiore, aggiunta nel Settecento, riproduce un’idea originale della serliana, ma questo intervento su un manufatto quattrocentesco di valore, risulta alquanto inopportuna. La porta in stile romanico immette nel campanile. Dal chiostro si passa al coro delle monache: contiene una tela di Giambattista Maganza il Vecchio, raffigurante San Vitale con San Pietro e San Prosdocimo.

Il campanile fu costruito in tre fasi successive: la prima nel tredicesimo secolo, un secondo intervento lo elevò nel 1417, finché nel 1552 si provvide ad un ultimo innalzamento, aprendo una nuova cella campanaria, la precedente è leggibile nella sottostante bifora.
Oratorio dei Boccalotti.

Sull’altro lato della via, la ricca fraglia medioevale dei Boccalotti, dalla quale uscivano terraglie e per questo aveva come insegna, oggi si direbbe “logo”, un boccale, fece erigere l’oratorio nel Quattrocento. La costruzione è semplice, di belle proporzioni, con copertura a capanna. Il portale è sormontato da una ghiera in cotto, la cui pregevole fattura rimanda al chiostro del convento ed è presumibile che entrambi i manufatti siano opera di uno stesso artista.

Una pannocchia è il motivo ornamentale della ghiera, sormontata da una formella rotonda dove è raffigurato un boccale. L’interno si presenta a pianta quadrata. La decorazione più notevole è la statua della Madonna in pietra dipinta, opera di Nicolò da Venezia con una lontana reminiscenza dei modi di  Giovanni Pisano. L’affresco della Pietà è largamente datato tra il 1450 e il 1550.

Bibliografia

  • Aa. Vv. , Chiesa di San Pietro in Vicenza – Storia, fede, arte, Nel V Centenario consacrazione della chiesa, Tipografia U.T.VI. tipolito, Vicenza, 1997.
  • E. Chiesa, Vicenza città bellissima, Panda Edizioni, Padova, 1987.