Vicenza

Uno sguardo dal Monte. Breve riepilogo sui problemi della produzione vedutistica vicentina
(di Giuseppe Barbieri)

dsc_0421-vicenzaQuasi trent’anni fa, Donald Meining ha fissato in una formula efficace una verità diffusa e condivisa: “any landscape is composed not only of what lies before our eyes but what lies within our heads”1.

Detto in termini anche più semplici, ogni veduta urbana è carica di teoria2, non è soltanto un fatto di percezione visiva: questo è anche, credo, il modo più utile di accostarsi alla grande e nitida Vicenza che Guido Albanello ha finito di disegnare in un anno fatidico come il 2000, e che poi Gilberto Padovan ha fatto stampare, assieme alle altre imagines urbium dei capoluoghi veneti.

Dovremo pertanto anzitutto restituire, sia pure in necessaria sintesi, la lunga e in parte anche complessa vicenda figurativa (e grafica) che costituisce lo stemma delle ascendenze del foglio di Albanello: la stiamo per percorrere, ma dovremo anche rintracciarvi delle interne ragioni.

Dovessimo tracciarla al contrario, bi­so­­­gnerebbe iniziare dalle fotografie del pri­mo Novecento3, e di lì risalire all’anonima xilografia che compare, nel 1890, nella serie delle Cento Città d’Italia dell’editore Sonzogno4, poi al taglio più ampio che connota, nell’edizione Mandeville di Parigi (1858), un foglio de L’Italie de nos jours di E. Roche5; tornassimo indietro di altri cinque anni, vedremmo che l’analogo panorama del capoluogo che Marco Moro consegna, come appendice alla raccolta di Vicenza e i suoi dintorni6, stringe l’inquadratura sull’allora recente impianto della stazione ferroviaria, e impone a ovest con maggiore, quasi tozza evidenza, l’inconfondibile mole del campanile della basilica di San Felice (a bilanciare gli analoghi elementi verticali di Santa Caterina, di San Pietro).

L’album tuttavia conteneva, al momento della sua prima edizione (1850), un’altra veduta7, anch’essa, di­chiara­ta­mente “dal Monte Berico”, per la verità di insolito assemblaggio, almeno per quanto si riferisce al margine sinistro della composizione, in particolare per la collocazione di palazzo Civena e della loggetta bertottiana di casa Sperotti a Ponte Furo, un elemento connotativo, quest’ultima, forte, e in entrambe le direzioni del tempo, se consideriamo a tale riguardo, per esempio, l’ampia Vicenza di Cristoforo Dall’Acqua8, poco oltre il 1780, dove la loggia occupa una posizione eminente, quasi centrale, e la Grande veduta di Vicenza di Neri Pozza, del 1954-19599, che deliberatamente riprende quel punto di vista.

Con Marco Moro, raffinato litografo trevigiano di Zenson di Piave (1817-1885)10, a lungo e a più riprese impegnato in terra berica, a partire dal 1844, noi cogliamo in effetti la penultima organica imago della città berica: nella sua ricerca, per esempio nell’Album di gemme architettoniche del 1847, per citare una sua insigne fatica, che si apre anch’essa con un identico colpo d’occhio sulla città ai piedi del colle, in un’immagine ovalizzata dominata dal Palazzo della Ragione (che chiamiamo Basilica palladiana) e dalla Torre di piazza, noi vediamo come la lezione architettonica del maestro rinascimentale sia assunta a cifra di lettura, decisiva se non proprio esclusiva, dell’intero tessuto urbano berico.

Più dei tanti neo-palladianisti del secolo precedente (e penso alle fatiche editoriali di Muttoni e di Bertotti Scamozzi), che si erano concentrati sulle singole invenzioni di Andrea, nel suo caso – e in accordo con quanto andava sostenendo al riguardo, impiegando un altro codice, Antonio Magrini11 – con Moro emerge dav­vero la Vicenza come “città del Palladio” (ma anche di Scamozzi e, più ancora, di Ottone Calderari12, dato che l’unica eccezione “gotica” a tale asse classicista è costituita dal palazzo Toso-Franceschini da Schio sul Corso, la cosiddetta Ca’ d’Oro): una città rappresentata nei modi di un “eroismo” ormai borghese, grazie a insistiti scorci di sottinsù, che enfatizzano – quasi come Welles in Citizen Kane – la mole, la monumentalità dei palazzi, che ci appaiono spesso (così come li aveva presentati Palladio nel suo trattato) come se fossero effettivamente “in isola”, come cioè se ciascuno occupasse un intero isolato, e questo almeno nell’Album del 1847.

È proprio Marco Moro dunque, con le sue riprese di corso Palladio, doppia cortina di ordinati e sontuosi prospetti, a sancire Vicenza come la “città dei palazzi”, termine che torna esplicitamente, e con una certa insistenza, anche nei titoli di opere, del secolo scorso, tra periegetica e storia architettonica, da Peronato a Franco Barbieri. E tuttavia risulta impossibile, dal privilegiato balcone di Monte Berico, cogliere questa città, questo laboratorio palladiano: che si intuisce viceversa nell’altro Panorama di Vicenza, datato 1852, che apre l’appendice di Vicenza e suoi dintorni13, e che è dominato dal prospetto di palazzo Chiericati, voltatesta orientale del corso.

Dunque, una prima, provvisoria conclusione: le vedute della città dal Monte Berico non possono fornirci né il percepibile disegno del tessuto urbano, e neppure marcare, se non mediante convocazioni ideali14, la palladianità del sito. Lo aveva già sottolineato del resto, sin dal 1973, Franco Barbieri: “tutti sanno che Vicenza, vista dal colle, non svela affatto, soprattutto per il vecchio centro storico ed i quartieri immediatamente vicini, la sua forma urbana: appare quasi come un profilo irto di torri e di guglie, stagliato sul fondo delle montagne dell’Altopiano, raccolto intorno alla mole della Basilica. Di qui l’hanno colta pittori ed incisori, dal Fogolino al Montagna al tardo settecentesco Cristoforo dall’Acqua”15. La conclusione del brano ci avvisa, ma non l’avevamo scordato, che la nostra genealogia a rebours è tutt’altro che conclusa.

Potremmo allora riprenderla dall’inizio, secondo un registro più convenzionale, per ricongiungerci infine al punto dove eravamo pervenuti. Scartando alcuni sfondi compositi di Giovanni Bellini, dove pur è dato constatare la comparsa di alcuni indubitabili lemmi del tessuto urbano berico16, e si consideri soprattutto in tal senso, proprio per un punto di vista compatibile almeno con le pendici di Monte Berico, la Pietà Donà dalle Rose delle veneziane Gallerie dell’Accademia, è se­gnatamente Marcello Fogolino, tra 1517 e 1524, a fornirci due vedute realistiche del capoluogo dal privilegiato balcone del colle che sovrasta, a sud, l’impianto urbano: si tratta della supposta17 predella della pala di San Vincenzo conservata agli Staatliche Museen di Berlino, che mostra, tra le figure in primo piano dei santi (da destra) Bernardino, Paolo e Francesco d’Assisi – quest’ultimo raffigurato
nell’atto di ricevere le stimmate – alcuni evidenti deittici della skyline berica (il Palazzo pubblico sormontato da una invero smisurata Torre di piazza; il torrione scaligero del Castello; il complesso benedettino di San Felice), mentre, appuntato al margine sinistro, dopo la figura di santa Chiara, compare, in un brano di puntuale realismo (ma anche qui si tratta di una convocazione ideale e impossibile, non consentita dalla scelta del punto di vista), l’insediamento servita di Monte Berico con la chiesa-santuario quattrocentesca e la prima porzione di monastero sorti nel luogo indicato come quello dell’apparizione della Vergine a Vincenza Pasini. La seconda veduta, ma in questo caso è mutata l’adozione del punto di vista, dato che ci troviamo ormai alle pendici del colle, come attesta la presenza della porta Lupia sul margine destro, coincide con l’aggiunta alla trecentesca Madonna delle Stelle nel Tempio di Santa Corona: che presenta ciononostante con più ravvicinata precisione la cortina delle mura, la mole del Duomo ancora privo del magniloquente abside che sarebbe stato completato, quasi quarant’anni più tardi, da Palladio, la grande torre quattrocentesca che incomberà sull’episcopio sino all’avvio del XIX secolo18.

Ho già implicitamente fornito una delle ragioni profonde, forse la principale, per la scelta dell’inquadratura: certo, le pendici di un monte tanto incombente sulla città, così prossimo al suo centro (al punto da rendere pressoché impossibile, nell’età moderna, un sistema di fortificazioni che lo escludesse) consentivano di raffigurare in modo, per così dire, naturale la gran parte del tessuto urbano: non c’era pertanto, in sostanza, la necessità di ricorrere a quello sguardo disumano19, in quanto supera il normale raggio visivo di un uomo, che si era per altro già iniziato ad applicare dall’inizio del XVI secolo, con l’insuperato modello della Venetie MD di Jacopo de’ Barbari, inquadrata dall’alto dell’isola di San Clemente, e che anche a Vicenza avrebbe poi trovato impiego, verso il 1580, con la cosiddetta Pianta Angelica di Giovanbattista Pittoni20.

Ma non era l’unica ragione: c’entra anche, con altrettanta evidenza, il fatto che non casualmente si volesse raffigurare la città dal luogo da cui su di essa si irradiava la protezione della Vergine, ossia da dove si erano posati i suoi piedi, trasformando quel colle in un “monte santo”21: così viene identificato all’inizio del pubblico processo promosso dalla città di Vicenza, alla fine del 1430, per dare pieno riscontro alla veridicità delle apparizioni della Vergine, attraverso l’escussione di ogni possibile testimone (e tuttavia senza aver voluto esaminare il maggiore, la donna a cui si era manifestata Maria, Vincenza Pasini, morta da pochi mesi), dove possiamo leggere, per l’appunto: “in monte Berice, qui nunc juste mons sacer appellatur”22.

Per cui non stupisce di trovare così inquadrata la città in una serie di opere che hanno, a tema principale, l’apparizione: accade nella tela giovanile di Francesco Maffei dei Musei Civici vicentini23, come pure nella più tarda lunetta dello stesso artista con la Glorificazione del podestà Girolamo Priuli24, che tuttavia ravvicina il punto di vista, pressoché replicando quello dell’anonima xilografia che compare nella Historia di Vicenza di Marzari (1604)25, e giù, sino all’eloquente e fino allo scorso anno inedito dipinto di anonimo pittore veneto della seconda metà del XVIII secolo pubblicato da Francesca Lodi26; e a questo ristretto elenco, che potremmo tuttavia dilatare, vanno ag­giunte le tele che rappresentano l’offerta alla Vergine, per mano di San Vincenzo, del modellino in argento del capoluogo berico, offerto ex-voto nelle circostanze della pestilenza del 1575-7627: dove la testimonianza iconografica del modellino poi fuso dalle truppe napoleoniche presenta non tanto l’irregolare imago urbis scaturita, in età medievale, dalle addizioni scaligere a Porta Nova e oltre il ponte degli Angeli, ma il nucleo primigenio delle mura di perimetro tondeggiante, le torri, i campanili, il fitto agglomerato delle costruzioni.

Così si apre del resto anche la se­quen­za delle realistiche immagini a stampa del capoluogo, dal frontespizio della Nobilita di Vicenza di Dragonzino da Fano28 alla già ricordata figura a corredo della Historia marzariana. Nel XVIII secolo è quanto osserviamo nell’atlante di Thomas Salmon29, nella rammentata Vicenza di Dall’Acqua, nell’acquaforte che Sebastiano Giampiccoli ricava da un disegno di Henri Joinville30, nelle vedute di Carl Ludwig Frommel e di Louis Cherbuin31 e, chiudendo il cerchio, nella prima panoramica che Marco Moro tratteggia, nel 1844, con l’evidente presenza, sul margine destro, dei portici muttoniani32.

La fase intermedia, dal 1580 al 1711, era stata viceversa impegnata, da Pittoni a Monticolo a Dall’Acqua, a scegliere altri punti di osservazione, da Monte Crocetta all’imbocco del corso, a uno sguardo zenitale, e tutti finivano per porre ai margini della città il “monte santo”. Un foglio manoscritto, purtroppo trafugato alcuni anni fa, rappresenta però una clamorosa eccezione.

Nel luglio del 1701, Ortensio Zago – un nobile vicentino di eclettica formazione e di svariati interessi (dall’archeologia all’architettura militare) – redigeva, su sollecitazione del capitano di Vicenza, Marco Antonio Grimani, una Relatione sopra lo stato delle Mura della Città33, con l’obiettivo di mostrare, in una congiuntura economica che non consentiva ingenti risorse, l’esigenza primaria di recuperare, mediante straordinaria manutenzione, le mura scaligere, integrate con un uso più accorto dei fossati e dei corsi d’acqua, che l’accurata mappa che accompagnava la Relatione puntualmente censiva, contrapponendo con particolare abilità la situazione esistente (e migliorabile, negli intenti di Zago) con il dirompente progetto sostenuto all’inizio degli anni ’30 del secolo precedente dall’ingegnere cremasco Francesco Tensini.

Non dobbiamo stupirci per l’alta qualità della mappa, di cui ci resta almeno una fotografia in bianco e nero. Essa spetta infatti a Francesco Muttoni, che qui risulta pressoché mero traduttore dei convincimenti zaghiani, a non tener conto, tuttavia, del particolare orientamento della pianta e della scelta dell’area coinvolta nella rappresentazione. L’orientamento riprende infatti, però solo apparentemente, il prototipo tardo-cinquecentesco della Vicetia di Monticulo (1599)34: il nord ai piedi dell’immagine, il sud alla sua sommità.

Ma, rispetto alle raffigurazioni tardo-cinquecentesche, l’asse ideale su cui s’impernia la mappa viene a concludersi, molto più esplicitamente, con il santuario di Monte Berico. Si tratta di una forzatura corografica, pienamente giustificata, del resto, dal ruolo che il colle, come abbiamo accennato, vantava nel secolare problema delle fortificazioni della città.

In questo modo tuttavia Muttoni, pur senza mostrare concretamente il tessuto urbano di Vicenza, indicava come direttrice prevalente di un futuro sviluppo del capoluogo quella che dal convento di San Bortolo giungeva sino a Monte Berico, attraversando l’area del Campo Marzo, sin qui, e anche in seguito, perdurante e infruttuosa voragine. Muttoni affacciava, in qualche misura, ancorché da un ruolo soprattutto esecutivo, nell’attesa del suo progetto per la sistemazione della Fiera35 e, infine, dell’invenzione dei portici di collegamento tra la città e il santuario, l’esigenza di colmarla, quella voragine, di raccordare davvero la città con il colle ch’era sede del suo principale santuario.
Molto resta da aggiungere, ma sorpassa i limiti di questa circostanza.

Il disegno di Albanello riassume e riprende cinque secoli di considerazioni in merito agli sguardi sulla città, che è quasi dire sulla città stessa. Non esistono parole più adeguate a descriverla di quelle di Guglielmo, nel Forestiere istruito di Ottavio Bertotti Scamozzi (1761), anche perché il luogo in cui si finge siano state pronunciate coincide pressoché con quello del nostro disegno: “Lasciatemi ora contemplare la veduta della Città e quella gran pianura, seminata, dirò così, di Chiese, di Palazzi e di Case sino alle falde delle Montagne”.
Da lì è Luigi Meneghello che ci insegna come si guarda di sotto.

Note

1 D. W. Meining, The beholding eye. Ten versions of ordinary landscapes, New York, Oxford University Press, 1979,
p. 34.
2 Cfr. al riguardo l’utile inquadramento del problema fornito in L. Nuti, Ritratti di città. Visione e memoria tra Medioevo e Settecento, Venezia, Marsilio, 1996.
3 G. Barbieri, Vicenza tra Ottocento e Novecento, Treviso, Canova, 2002, pp. 8-9.
4 Vicenza Città bellissima. Iconografia vicentina a stampa dal XV al XIX secolo, a cura di Attilio Carta, Mariella Magliani, Adele Scarpari, Renato Zironda, II ediz. (e successive ristampe), Vicenza, Tipografia S. Giuseppe G. Rumor, 1990, scheda 260.
5 Ivi, scheda 253.
6 Ivi, scheda 248.
7 Ivi, scheda 232.
8 Ivi, scheda 121.
9 Incisioni di Neri Pozza 1935-1985, con scritti di L. Magagnato e V. Sgarbi, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1987, tav. 59.
10 Sulla figura di Moro, C. Alberici, Marco Moro litografo vedutista, in “Rassegna di studi e di notizie”, IV (1977), vol. V, pp. 9-91.
11 Mi riferisco in particolare agli elenchi che Magrini stende, per conto dell’autorità austriaca, nel 1851 e nel 1854: cfr. U. Soragni, Conservazione e tutela storico-artistica nel territorio vicentino. I provvedimenti austriaci, in Città ed archivi nell’età degli imperi. Urbanistica e interventi d’architettura a Vicenza da Napoleone agli Asburgo (1806-1866), a cura dello stesso, Vicenza, Stocchiero grafica, 1985, pp. 71-104.
12 A cura di G. Beltramini, I disegni di Ottone Calderari al Museo Civico di Vicenza, Venezia, Marsilio, 1999: com’è noto, il nesso tra Palladio e Calderari è sancito dallo spettacoloso dipinto di Francesco Boldrini nella collezione da Schio di Castelgomberto (ivi, p. 41).
13 Vicenza e suoi dintorni, disegni a due tinte presi dal vero e litografati da Marco Moro, Vicenza-Venezia, Decio Avogadro e Marco Moro, 1850, appendice.
14 Penso soprattutto all’impossibile dislocazione della Rotonda nella strepitosa, ma non certamente realistica, Veduta ideale di Vicenza con celebrazione allegorica di Andrea Palladio di Francesco Zuccarelli (collezione Banca Intesa, Vicenza, Gallerie di Palazzo Leoni Montanari): sul dipinto cfr. la Scheda I. 34 (pur scandita da qualche imprecisione) di R. Pancheri, in Il Neoclassicismo in Italia. Da Tiepolo a Canova, catalogo della mostra a cura di F. Mazzocca et alii, Milano, Skira, 2002, pp. 417-418.
15 F. Barbieri, La pianta prospettica di Vicenza del 1580, Vicenza, Neri Pozza, 1973, p. 20.
16 Sulla questione cfr. il pur non ineccepibile Bellini e Vicenza, catalogo della mostra a cura di Enrico Maria Dal Pozzolo e Fernando Rigon, Vicenza, Banca Popolare di Vicenza – Biblos, 2003.
17 G.C.F. Villa, scheda 53, in Pinacoteca Civica di Vicenza. Dipinti dal XIV al XVI secolo, a cura di M. E. Avagnina, M. Binotto, G.C.F. Villa, Milano, Artigrafiche Amilcare Pizzi, 2003, pp. 197-198.
18 Su questi e altri dipinti fogoliniani, F. Barbieri, Immagini di Vicenza cinquecentesca e palladiana, in Andrea Palladio. Il testo, l’immagine, la città, catalogo della mostra a cura di L. Puppi, Milano [ma Vicenza], Electa, 1980, pp. 141-165.
19 Cfr. a tal proposito L. Nuti, Ritratti di città, p. 158 sgg. e F. Farinelli, I segni del mondo. Immagine cartografica e discorso geografico in età moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 28.
20 Pubblicata in J.S. Ackerman, Palladio’s Vicenza: a Bird’s-eye Plan of C. 1571, in Studies in Renaissance and Baroque Art presented to Antony Blunt, London, Phaidon Press, 1967, pp. 53-61.
21 P. Possamai, Andrea Palladio e il Monte Santo di Vicenza, Roma, De Luca, 1994.
22 Il corsivo è mio. Si tratta del Processus factus […] per egregium et sapientem legum doctorem dominum Johannem de Portis pro Communi Vincentie judicem consulem et ad bancum aquile specialiter deputatum, un codice cartaceo di 26 fogli, con il testo diviso in due parti (la seconda delle quali, dal f. 19r, esattamente datata al 13 novembre 1430, la prima presumibilmente raccolta tra l’ottobre e il novembre dello stesso anno), autenticato dal sigillo del podestà veneziano Marco Michiel, in data 15 marzo 1431. Più volte renovato “trascrivendolo, et poi autenticato con debiti modi e solennità”, come stabilisce la parte del Consiglio dei Cento il 10 gennaio del 1529, per secoli conservato nel monastero servita di Monte Berico, dopo le soppressioni del 1810 pervenne ai fondi della Biblioteca Bertoliana di Vicenza (Mss., 266-267 = Gonz. 7.1.65). Un’accurata edizione in G.M. Casarotto, La costruzione del santuario mariano di Monte Berico. Edizione critica del “processo” vicentino del 1430-1431, Vicenza, Bibliotheca Servorum Veneta, 13, 1991, ma si vedano anche le precedenti osservazioni di G.M. Todescato, Origini del santuario della Madonna di Monte Berico, Vicenza, Edizioni Servi di Maria, II ediz. 1989. Per una più articolata analisi del problema cfr. anche il mio Il Santuario e la Città: Monte Berico a Vicenza, in Tra Monti Sacri, “Sacri Monti” e Santuari. Il caso veneto, a cura di A. Diano e L. Puppi, atti del Convegno di studi (Monselice, 1-2 aprile 2005), in corso di stampa.
23 Cfr. P. Rossi, scheda 85, in Pinacoteca Civica di Vicenza. Dipinti del XVII e XVIII secolo, a cura di M.E. Avagnina, M. Binotto, G.C. Federico Villa, Milano, Artigrafiche Amilcare Pizzi, 2004, pp. 141-142.
24 Ead., scheda 97, ivi, pp. 155-157.
25 Vicenza Città bellissima, scheda 93.
26 F. Lodi, scheda 299, in Pinacoteca Civica di Vicenza. Dipinti del XVII e XVIII secolo, pp. 328-329.
27 P. Rossi, scheda 83, ivi, pp. 139-140 e F. Barbieri, scheda 176 bis, in Andrea Palladio. Il testo, pp. 162-165.
28 Vicenza Città bellissima, scheda 91.
29 Ivi, scheda 109.
30 Ivi, scheda 126.
31 Ivi, schede 192-193.
32 Ivi, scheda 196.
33 In Vicenza, Biblioteca Civica Bertoliana, Mss., Gonz. 22.11.6=2974, ff. 4r-7r; la relazione è stata pubblicata da U. Soragni, Una pianta di Vicenza del 1701 di Francesco Muttoni, in “Storia della città”, vol. 5, a. II (1977), n. IV, pp. 54-62 (per l’edizione del testo di Zago, pp. 60-62).
34 Vicenza Città bellissima, scheda 49.
35 Cfr. il mio L’immagine di Vicenza. La città e il territorio in piante, mappe e vedute dal XV al XX secolo, Treviso, Canova, 2003, pp. 158-167.