Le Anacreontee: gli imitatori di Anacreonte di Teo

CONSIDERAZIONI SULL’EDIZIONE DELLE ANACREONTEE
DI GIORGIO PEGORARO – GILBERTO PADOVAN EDITORE (2010)

DSC_0472Anacreonte, che visse circa 85 anni errando di città in città nella Grecia dei tiranni del VI-V sec. a. C., fu il “…saggio poeta dell’amore e del vino … il poeta della grazia delicata e raffinata…” (G. Perrotta).

 

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Un giovanissimo editore francese, Henri Estienne (divenuto poi celebre col nome latino di Henricus Stephanus), pubblicò nel 1554 una sessantina di carmi attribuiti ad Anacreonte, conservati e inseriti in un antico codice, che egli aveva scoperto o, meglio, consultato nel nord dell’Europa e che a Heidelberg diverrà poi celebre col nome di Antologia Palatina, un codice ove si ritrovano anche gran parte dei più noti epigrammi della grecità (3700!).

Questi carmi del XV libro del codice non sono di Anacreonte, ma solo a lui attribuiti. Anacreonte era già nell’antichità divenuto nel mito della poesia il vate del simposio: nella sua figura d’uomo e di poeta s’incarnavano il trionfo dell’amore, del vino, del verso leggero e leggiadro, della danza e della musica, dell’amicizia conviviale, insomma di una concezione dell’esistenza che si fondava sulla necessità di abbandonarsi alle delizie del presente.

E queste poesiole ebbero a partire dal Cinquecento e fino alla prima  metà dell’Ottocento (quando si scoperse che non potevano essere di Anacreonte) un successo enorme: si pensi ai grandi poeti della francese Pléiade, quella Brigata che nel XVI secolo voleva, anche nel segno delle Anacreontee, il rinnovamento della letteratura francese, oppure in Inghilterra guardiamo a poeti come Ben Johnson e Robert Herrick, in Germania a Friedrich Klopstock e  August von Platen (il Goethe tradusse il carme 34 dedicato alla Cicala!).

Per l’Italia ricordiamo il Tasso, il Chiabrera, il Redi, gli Arcadi dallo Zappi fino a Jacopo Vittorelli (le Anacreontiche a Irene, di cui alcune furono tradotte in inglese da George Byron e altre musicate da Giuseppe Verdi).

Gli autori greci di questi testi sono molto tardi e appartengono all’epoca romana imperiale e anche bizantina.

Vissero e si riunirono in allegre brigate soprattutto nel Medioriente: ci commuove pensare che gli ideatori di queste poesiole leggere come farfalle ebbero tra i loro centri prediletti, in particolare nel quinto secolo d. C, quella Gaza che è oggi focolaio di odi e di conflitti. Fin dallo Stefano edizioni e traduzioni si accavallarono l’una sull’altra in tutta Europa: ma l’ultima edizione completa in Italia (di Luigi A. Michelangeli), voluta dal Carducci, risale al 1882. Poi più nulla.

Gilberto Padovan, di cui sono ben note l’eleganza delle pubblicazioni e la perspicacia delle intuizioni, intende quindi -nel campo della tradizione letteraria della Grecia antica- colmare un vuoto, anche perché all’estero in quest’ultimo trentennio la curiosità e l’interesse nei confronti delle Anacreontee sono rispuntati con riedizioni, convegni, studi e ricerche.

In particolare molti studiosi di diversi paesi hanno pubblicato saggi e traduzioni delle Anacreontee: ricercatori americani (Patricia A. Rosemeyer: Cambridge University Press, London 1992 ), inglesi (Alan Cameron: Clarendon Press 2003 e in particolare Martin West, Bibliotheca Teubneriana 1993), spagnoli (Maximo Brioso Sánchez: Consejo Superior de Investigationes Cientificas 1981), francesi (Gérard Lambin: Presses Universitaires de Rennes 2002), ecc.

L’edizione che G. Padovan propone è piuttosto rivoluzionaria, proprio perché … conservatrice. G. Pegoraro è in sostanza più riguardoso del dettato che il codice ci fornisce e riduce notevolmente il ricorso a integrazioni e varianti.

Un solo esempio: Martin L. West e molti altri dividono arbitrariamente il carme 60 in due parti (vv. 1-23 e 24-36). Il Pegoraro dimostra nel carme 60 un coerente ricorso allo stile narrativo di Pindaro: non c’è quindi alcun bisogno di stravolgere l’ordine del codice interpolando quattro versi.

Una breve introduzione riassume la vicenda della diffusione delle Anacreontee. Ma soprattutto quest’edizione è arricchita (forse una novità!) da un repertorio (le cosiddette Concordanze) che raccoglie per ordine alfabetico le 3852 parole dei carmi e ne indicizza l’uso, riportando l’intero verso in cui ogni parola è usata nei vari luoghi.

Un’esigenza che non è più di moda, ma che soprattutto è stata usata per la Bibbia (la cosiddetta concordanza biblica) in una sorta di prontuario o indice nel quale le singole voci sono appunto disposte alfabeticamente con l’indicazione del libro, del capo e del versetto in cui si trovano per facilitare  il ritrovamento del passo relativo e il confronto dell’uso di un determinato vocabolo.

Così anche per la Divina Commedia di Dante sono stati pubblicati alcuni importanti lavori: tra gli altri le Concordanze di E. A. Fay (Boston-Londra 1888) e le Concordanze di  E. H. Wilkins, T. G. Bergins, A. J. De Vito (Cambridge 1965).

Quest’edizione delle Anacreontee a cura di Giorgio Pegoraro è dunque un’opera che renderà più facili le future ricerche filologiche e anche letterarie su questa -a suo tempo- celeberrima antologia di carmi della tarda grecità.

Nel suo testo introduttivo il poeta Andrea Zanzotto loda in particolare le traduzioni in italiano “tutte stillanti di sottinteso umanismo e osserva che “l’agilità dei metri usati fa scoprire sempre nuove pieghe al lettore”.

Così il poeta (italiano e latino!) Fernando Bandini, mettendo in rilievo la risentita umanità del Pegoraro, ne ricollega la formazione col classicismo di fondo della cultura bassanese e nella traduzione di questi carmi sottolinea il riconoscibile apporto di quella fresca, nativa ispirazione poetica del bassanese Jacopo Vittorelli, che nel suo canto si ispirò eminentemente alle Anacreontee, un’ispirazione affabulata nei modi del canto fuori dalle consuetudini di un artificioso esercizio.

 

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Orazio: L’ode del “carpe diem” dettata con la brevità e la grazia di un epigramma dell’Antologia, in cui il Poeta esprime un acuto senso della caducità e delle gioie della vita soprattutto il rapido tramonto.

 

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Le Anacreontee: “Dichiarazione d’amore”. E’ una delle più belle dichiarazioni d’amore della letteratura antica, in cui il Poeta ricorre al tema della metamorfosi, per diventare uno dei tanti oggetti che usava la propria amata, in modo da poterle restare sempre accanto.

 

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Orazio: Ode II, 11. Il Poeta si rivolge a Quinzio Irpino, invitandolo a godere le vaghezze della vita e a non preoccuparsi per le minacce dei nemici situati alle estremità opposte dell’Adriatico. Non vale nemmeno la pena pensare troppo alle piccole avversità della vita che fugge inesorabilmente: meglio godere di una piccola festa in giardino, di qualche tazza di Falerno e, soprattutto, di Lide.