Panorami di Verona


(di Giorgio Marini)

Se per caso vi trovate a Verona in una limpida, calda giornata d’estate e – come può benissimo succedere – alla fine di essa vi sentite stanchi, prendete una carrozzella e recatevi alla porta orientale (sulla strada che conduce alla stazione per Venezia).

Vedrete, cinquanta metri oltre la porta, una bella strada che gira a sinistra – e di là, immediatamente, un’altra che gira pure a sinistra e che, con una pendenza graduale, comincia a salire la collina su cui sono costruite le mura orientali di Verona […].

La strada sale di continuo; mentre il pendio rivestito di viti sulla destra diviene più ripido e superbo  – le grandi mura si snodano, torre sopra torre – e il blu della lontana Lombardia si sparge sempre più cupo sui loro merli più bassi […].

Da questa sommità potete vedere l’intera Verona, e la pianura fra le Alpi e l’Appennino; e così, se vi piace, trovare un posto dove le rocce sono muschiose, e sedervi, e considerare un po’ che cosa questo paesaggio fra tutti i paesaggi del mondo ha in particolare da dirci […].

Poi giratevi verso nord-ovest, e sotto il tramonto vedrete l’Adige fluire dal suo incantato vestibolo di marmo, e in un’unica corrente impetuosa e quasi rettilinea, imbiancato sempre fino a risplendere dalla sua rapidità, non riflettendo nei suoi vortici né sponde né nubi, ma soltanto luce, stendersi fra le vigne, verso la Verona che giace ai vostri piedi: lì passa dapprima accanto alle mura degli orti della chiesa di San Zeno, poi sotto i merli del grande ponte degli Scaligeri, poi scompare alla vista dietro la collina su cui, benché fra orrendi edifici moderni, potete ancora rintracciare qua e là un frammento grigio di torre e di mura: i resti del palazzo di Teodorico di Verona […].

Con questi toni appassionati, nel febbraio del 1870, il geniale e tormentato spirito di John Ruskin evocava davanti al pubblico della Royal Institution di Oxford, in una saldissima catena di osservazioni e divagazioni sul passato della città, l’irripetibile connubio di natura e storia che egli aveva trovate mirabilmente intrecciate nell’amata Verona, dove l’arcana vitalità delle ‘pietre’ e dei monumenti antichi prendeva il suo pieno significato dalla relazione con il territorio circostante, rivelando la sua concezione del paesaggio come cerchio di simboli.

Associando la narrazione scritta a quella per immagini, l’angolatura secondo cui il poligrafo britannico guardava la Verona medievale dall’alto dei suoi colli testimonia di un mutato atteggiamento nell’approccio visivo alla città, che corrisponde a nuove tipologie di rappresentazione urbana, nell’epoca della più ampia affermazione delle vedute otticamente allargate dei “panorami”.

La peculiare posizione geografica di Verona, dove il sistema urbano è condizionato e intimamente conformato dal fiume e dai rilievi circostanti, non ne ha peraltro a lungo favorito la rappresentazione urbana ripresa dall’alto dei suoi colli.

La stessa vocazione militare della città, che le deriva dall’importanza strategica della collocazione geografica, ha semmai privilegiato nei secoli la sua rappresentazione cartografica zenitale, dove il valore documentario e la precisione del rilevamento hanno a lungo prevalso sulle suggestioni paesistiche e d’ambiente.

Una delle prime deroghe a questo fenomeno, l’immagine di Verona incisa da Michael Wohlgemut per il volume De temporibus mundi dello Schedel, del 1493, si risolve infatti in una rappresentazione fantastica di città murata e turrita, che ricorre più volte nello stesso volume ad illustrare città diverse in virtù di un proprio valore simbolico.

Con qualche rara eccezione, quindi, chi scorresse le pagine lasciate dai grandi letterati e viaggiatori a memoria del loro incontro con Verona, stenterebbe a trovarvi fino all’epoca romantica una descrizione della città dal sommo dei suoi colli, dove forse la presenza ingombrante dei forti e dei castelli militari non doveva invitare alla contemplazione delle innegabili bellezze del sito, quanto evocare un funzionale e quantomeno opprimente “controllo del territorio”.

Singolarmente, a dispetto della felice collocazione di Verona, adagiata ai piedi dei monti e stretta nel doppio abbraccio del fiume, anche il definirsi dell’imago urbis attraverso le stampe ha nei secoli eluso il più delle volte i punti di vista più naturalmente panoramici dai rilievi circostanti.

In questo, anche la radicata anima romana della città, indagata nei secoli dagli eruditi e dagli ‘antiquari’, non mancò di avere la sua parte in quella che sembra una precisa volontà di rappresentarsi soprattutto nel tracciato romano delle vie e nel cerchio imponente delle strutture di difesa militare.

Una eloquente analogia lega del resto il percorso della raffigurazione a stampa della città e il mancato radicarsi, nella tradizione figurativa veronese, di una autentica pittura di veduta.

Verona è spesso fondale, quinta scenografica o tutt’al più scorcio pittoresco nei dipinti dei suoi artisti, dal Rinascimento al Novecento, ma assai raramente è fatta puro oggetto della visione, come ad esempio nei lucidi ‘ritratti urbani’ di Bernardo Bellotto.

Questi fu pittore di cieli, di acque e di luci, ma le sue immagini più attuali e innovative, quelle dipinte appunto nei suoi passaggi in riva all’Adige tra il 1745 e il 1747, non sembrano aver lasciato traccia duratura a Verona.

Fino alla “rivoluzione vedutistica” dell’epoca dei lumi la rappresentazione figurativa cittadina attraverso le stampe ha per lo più i caratteri di un paesaggio emblematico, di una visione sintetica e funzionale del sito più che sua concreta esperienza visiva, privilegiando le tipologie del profilo urbano o della vista a volo d’uccello.

Queste si combinano ad esempio nei disegni attribuiti al pittore Giovanni Caroto, da quello per la celebre pianta, realizzato intorno al 1540, a quelli di minor rilevanza topografica col profilo della città da ponente, fitto di torri e campanili, che emerge dai bastioni delle mura o ancora, in una visione più luminosa e atmosferica ma forse più tarda e di altra mano, nella ripresa da oltre il fiume, da ponente, presso il Bastione di Spagna, della sequenza ordinata dei monumenti da Castelvecchio ai castelli sulla collina.

Ad un esame ravvicinato, ancorché rapido, delle tappe salienti della storia della sua rappresentazione incisoria, si evince quindi quanto rare siano per Verona le autentiche vedute dall’alto delle colline.

Di certo tra le più importanti è quella che riprende la città da nord-ovest – e quindi all’incirca dal colle di San Leonardo – fissando un punto di vista per il ritratto paesistico veronese che verrà a lungo rivisitato da altri artisti. Essa venne incisa all’acquaforte da Franz Hogenberg (1540 c.-1590) come tavola del terzo volume della grande raccolta Urbium praecipuarum totius mundi di G. Braun, edita a Colonia nel 1581.

Immancabilmente, questa divenne la fonte primaria per gli Itineraria e i libri di viaggio, go­dendo di una straordinaria fortuna v­i­siva che reggerà incontrastata fino alla metà del Settecento.

Nel 1653 Johannes Jansson avrebbe acquistato da Abraham Hogenberg, ultimo editore dell’opera di Braun, tutti i rami dell’opera, procedendo a delle modifiche puramente decorative della tavola relativa a Verona, e ancora J. Graevius l’avrebbe inserita in una edizione del 1723 del De Civitatis Veronae origine di Torello Sarayna.

Da essa deriverà direttamente – con lo stesso profilo dei castelli di San Felice e di San Pietro e l’innestarsi delle mura scaligere nella ‘rondella’ sanmicheliana e nel sistema dei bastioni, contro lo skyline della città fitto di torri – pure la pittoresca acquaforte di Matteo Merian, edita a Francoforte nel 1640, e una innumerevole serie di riprese e interpretazioni tra Sei e Settecento.

Assai più innovativa, rispetto a questa linea, è la straordinaria veduta a volo d’uccello di Paolo Ligozzi, databile intorno al 1630, che si riconnette al filone aperto dalla veduta veneziana di Jacopo de’ Barbari, del 1500, e che comunque si evidenzia per una ripresa da meridione della città che riesce a unire a quelle della pianta le caratteristiche della veduta urbana.

La singolare visione allungata della città da sud-ovest, secondo l’orientamento fissato già da Caroto, pur nelle inevitabili distorsioni del tessuto viario, costituisce il più fedele referente urbanistico e tipologico della città seicentesca, in corrispondenza del suo massimo sviluppo.

Racchiusa nelle sue mura e difesa dai possenti bastioni sanmicheliani, inquadrata dalle alture alle spalle, da ora in avanti la rappresentazione della città scaligera assumerà spesso i caratteri del paesaggio emblematico, re­pertorio e compendio simbolico delle varie emergenze monumentali descritte in ogni torre, cupola o campanile, mentre del mondo esterno non ci si cura di dire nulla, quasi inverando le parole di Romeo fuggiasco sulla mancanza di un autentico mondo al di fuori delle mura di Verona.

Queste avevano nel tempo fatto della città quasi un’isola, sottolineando in maniera violenta la frattura tra città e contado: nel raggio di un miglio all’intorno perfino ogni forma di vegetazione era stata eliminata nel Cinquecento secondo le disposizioni della Repubblica per permettere ai cannoni di battere il territorio circostante.

Ma se il Cinquecento aveva misurato il paesaggio urbano per riprodurlo, nelle riprese settecentesche del profilo di Verona si attua una sorta di monumentalizzazione della città, idealizzata e rappresentata dram­matizzandone i caratteri specifici.

Intorno al secondo decennio del secolo l’editore e incisore tedesco Jeremias Wolf aveva diffuso un nitido prospetto di Verona Fidelis dall’angolazione desueta, il tratto di mura tra Porta San Zeno e Porta Palio, che fu a lungo riedita da Georg Probst, il genero che ne ereditò la bottega nel 1724.

Verso il 1730 questi avrebbe pubblicato un’altra celebre veduta, il cui punto di vista dai colli retrostanti Verona, a ponente, si rifaceva ai rari prototipi cinquecenteschi.

Il disegno di Friedrich Bernhard Werner (1690-1778), artista attivo nell’importante centro di Augsburg, una delle capitali europee della grande produzione di stampe del diciottesimo secolo, nell’enfatizzazione degli elementi verticali ne dà l’immagine di una stretta, orgogliosa città chiusa nelle sue mura, quasi un’austera capitale nordica, come i toponimi bilingui in italiano e tedesco sembrano voler sottolineare.

Assai semplificata, la ripresa da sud-ovest di Wolf veniva riproposta dopo la metà del secolo a corredo di una carta del territorio veronese ispirata a quella di François Seguier, del 1745, unendo al profilo della città in corrispondenza di Porta Palio l’inquadratura del cerchio delle mura che corona le colline circostanti.

Se da un lato l’iconografia cittadina a stampa privilegia nel Settecento la rappresentazione parziale degli spazi urbani socialmente o economicamente nodali nel tessuto cittadino, è più spesso il ruolo centrale dell’Adige come via d’acqua sostanziale alla vita della città a diventare protagonista in molte figurazioni incise.

Un’incomparabile forza rivela ad esempio, nel rigore della costruzione prospettica ripresa da un punto sul fiume presso Porta Vittoria, la rara acquaforte con la Gran veduta che fa l’Adige al Ponte delle Navi sopra il posto della cattena alla Vittoria, siglata intorno alla metà del secolo da un ignoto monogrammista G.G.B.S., certamente molto abile nell’impaginare la ripresa la quale, se non ha relazioni dirette con quelle celebri di Bellotto, ne condivide quantomeno la precisione ottica e l’interesse per il contesto urbano.

Negli ultimi decenni del secolo sarà invece l’acquaforte incisa da Marco Sebastiano Giampiccoli su disegno di Enrico Joinville a diffondere un panorama di Verona dall’alto che, pur nel tentativo di aggiornare la visione della realtà urbana e del suo rapporto col territorio, ripropone fin nelle incongruenze topografiche la veduta pubblicata a Venezia nel 1751 nell’opera di Tommaso Salmon, Lo stato presente di tutti i paesi e popoli del mondo….

Con gli inizi dell’Ottocento la presenza a Verona del bergamasco Pietro Ronzoni fu importante nell’aprire in città una tradizione di appunti grafici di viaggio che fondeva in pari misura la tradizione vedutistica settecentesca con il disegno architettonico neoclassico, con un’esplicita incidenza sul definirsi di un filone paesaggistico a Verona nel corso del secolo, a partire dalla attività dei fratelli Canella.

Non a caso le angolature pittoresche della città, ripresa dalle Torricelle o dalle mura scaligere, che popolano i taccuini di Ronzoni, vennero presto riproposte in numerose stampe di ambientazione scenografica e fortemente emotiva, che dall’alto del Giardino Giusti o della Fontana del Ferro, fra cipressi e improbabili pini a ombrello, divennero gli scorci deputati della contemplazione romantica del panorama di Verona.

Un riflesso di questo mutamento di gusto è documentato anche dalla veduta panoramica di Verona edita a Milano da Antonio Vallardi intorno al 1840, un’acquaforte a granito incisa da un disegno di P. Majocchi ripreso dall’alto della Gran Guardia che si affaccia sulla città circondata dai monti e che già apre verso la visione fotografica che sarà dominante nei decenni a seguire.

Ma l’immagine più innovativa in tal senso sarà senz’altro la grande litografia disegnata dal trevigiano Marco Moro (1817-1885) per l’editore Brizeghel di Venezia intorno al 1850. Comprensiva di ampie zone che, di fatto, includono la visione di quasi tutta la città, la stampa riveste una grande rilevanza documentaria per la resa puntuale delle tipologie edilizie delle case prospicienti il fiume e dello stretto rapporto di questo con il tessuto urbano prima della costruzione dei muraglioni.

Seguendo l’abbraccio del fiume, dal Cimitero alla chiesa di San Giorgio in Braida, la veduta descrive l’impianto urbanistico del centro storico da una prospettiva insieme rialzata e ravvicinata, il cui effetto grandangolare è forse ottenuto con una camera ottica dal piazzale di Castel San Pietro e sente in qualche modo l’influsso delle prime fotografie.

Così come un medesimo intento di “leggere” l’impianto urbano ponendovisi dall’esterno, ampliando l’angolatura visiva per sottolineare il numero dei siti emergenti o l’importanza del fiume, si coglie nella spettacolare veduta aerea di Alfred Guesdon, pubblicata a Parigi nel 1849, ripresa da sopra San Zeno verso oriente, con una efficace anticipazione della fotografia aerea.

Un singolare elemento, che accomuna i passaggi salienti del percorso sin qui sommariamente tracciato, è che gli apporti più innovativi sembrano esser giunti, non a caso, da artisti esterni alla tradizione visiva locale, in grado di rendere con occhi diversi l’immagine della città, come del resto non era veronese Bellotto, né Ronzoni, né il litografo Marco Moro.

In questo senso anche la grande litografia dedicata alla città scaligera dall’editore vicentino Gilberto Padovan ha i caratteri della continuità nell’innovazione, riprendendo un discorso visuale che mancava con questo respiro da almeno 150 anni nel percorso dell’iconografia urbana di Verona.

È una sorta di ritorno alle primarie fonti dell’immagine della città, ripresa dal colle San Leonardo, a sua volta promosso solo dal dopoguerra a punto panoramico imprescindibile per comprendere lo sviluppo della Verona di oggi.

Innestando il profilo della città storica, chiusa nell’ansa del fiume, in una più ampia visione paesistica, il disegno di Guido Albanello riesce a fondervi felicemente la precisa fedeltà documentaria alla piacevolezza decorativa dell’insieme, in virtù di un tessuto grafico pulviscolare e finissimo, insieme nitido e sfumato, con effetti morbidi e certamente poetici.

La capacità di raffigurare la città mediante una grande economia di mezzi grafici, servendosi di un codice di segni minuti che il tratto a china traduce in un preciso reticolo, fa sì che la visione si sgrani come in un velo di vapori: da un sinuoso profilo vegetale, la veduta si affaccia, al di sopra delle emergenze architettoniche antiche e dell’abbraccio dell’Adige, su un orizzonte che la finezza tecnica rende di intensa vibrazione atmosferica e luministica.