Fratalia aurificum civitatis vicentiae

L’antico statuto della Fraglia degli Orafi (Vicenza – 1333), trascritto, tradotto e commentato.

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Profuma di “antico” la proposta firmata dall’editore Gilberto Padovan, che presenta la “Fratalia Aurificum Civitatis Vincentiae”: duecentocinquanta pagine finemente stampate in carta di pregio che riportano, precedute da un’interessante introduzione storica, gli statuti e le “matricole” della grande e prestigiosa fraglia degli orefici vicentini, rappresentando il più antico documento appartenente alla corporazione.

Custodito nella Biblioteca Bertoliana di Vicenza, il manoscritto è tornato dunque a vivere in un elegante cofanetto che raccoglie in un unico, pregevole volume (24×33, 250 pagine, 103 illustrazioni), la riproduzione, di quelle antiche “carte” e la loro fedele trascrizione, curata – così come l’introduzione e il commento dello storico vicentino Natascia Carlotto.

In gran parte costituito da carte di cancelleria e da stralci degli antichi statuti della fralia, il manoscritto racconta le vicende quotidiane e ufficiali della categoria orafa, in un periodo di grande significato per l’evoluzione dell’economia e della società vicentina, che dal 1322 (o già dal 1311, almeno nel proemio) al 1339 abbraccia i secoli fino alla seconda metà del Cinquecento.

E a rendere ancor più viva e pulsante la cronaca di quei tempi che affiora dalle pergamene degli Statuta, ecco poi le rapide note lasciate in calce dai copisti: da quella che specifica il fatto che “Questa è la matricola della fraglia degli orefici”, fino al commento secondo cui la matricola sarebbe ricomparsa “quando un povero avrà un amico”. Tutte tracce dei secoli passati che la Carlotto ha abilmente collegato l’una all’altra, definendo così i contorni di una “storia nella storia” in cui i fatti della corporazione si intrecciano con quelli della città.

Fra le pagine trecentesche e le note del copista che nel Cinquecento redasse parte del manoscritto, si ricostruisce insomma una parte fondamentale della storia non solo in una categoria tanto radicata nella nostra tradizione imprenditoriale come quella orafa, ma di un’intera comunità impegnata giorno dopo giorno a costruire la propria crescita.

Secondo Natascia Carlotto, “lo Statuto degli orafi rappresenta un sicuro punto d’avvio per un’indagine che necessariamente spazia nell’ambito della storia sociale, a partire dall’analisi delle strutture produttive, sia nell’ottica della regolamentazione giuridica che dell’attività pratica, fino all’analisi delle dinamiche di mercato, senza trascurare lo studio del rapporto fra bottega artigiana e famiglia, o, ancora, lo studio del rapporto fra il ricambio della manodopera e la mobilità geografica, professionale e sociale, oppure la ricerca sullo sviluppo urbano nelle sue interrelazioni con le fortune economiche familiari”. Analizzando la struttura del manoscritto conservato alla Bertoliana, la studiosa vicentina segnala non solo “le ventisei rubriche statutarie a noi direttamente pervenute”, ma va anche oltre. Se infatti il manoscritto prende vita in quegli anni del Trecento, la storia della corporazione affonda le proprie radici fin da alcuni secoli prima, almeno dai primi decenni del secondo Millennio. Si analizza perciò a 360 gradi “questa età (che) fu contraddistinta da un crescente e in breve imponente sviluppo economico che pose le premesse al connotarsi della civiltà europea. Tale sviluppo comportò vistose trasformazioni misurabili nei progressi realizzati nell’agricoltura, nell’artigianato, nei commerci, e in generale nell’organizzazione politica e civile”. Ed è all’interno di questa ampia e complessa fase di trasformazioni che si innesta anche “l’affermazione del mondo cittadino e della sua cultura. Una cultura forse impropriamente definita borghese (…) ma sicuramente contraddistinta dal valore del lavoro e del guadagno realizzato con l’esercizio di abilità tecniche e creatività intellettuali, anziché tramite la riscossione di rendite e nell’esclusivo esercizio dell’arte della guerra, rimasta a lungo appannaggio degli aristocratici cavalieri sprezzanti della laboriosa fatica e della necessità di guadagnarsi il pane o di migliorare la propria condizione con attività manuali”. Fu su questo ceppo che attecchirono e maturarono le radici della cultura mercantile e artigiana che nei secoli conobbero crescente splendore. E fu nel contempo “in una società in cui l’individuo isolato aveva scarse possibilità di sopravvivenza – osserva la Carlotto – (che) le arti rispondevano ad un grande bisogno di protezione e solidarietà. Si prodigavano per aiutare i membri in difficoltà, sovvenendo ai bisogni degli ammalati oppure offrendo aiuto alle vedove e agli orfani dei loro consociati. E’ questo spirito corporativistico, nel senso più nobile del termine, che prescrisse agli aderenti alla fraglia degli orafi di Vicenza, senza eccezione e al di là delle effettive affinità personali, di ritrovarsi insieme per onorare e dare sepoltura ad ogni membro dell’arte”. Questo accenno alla religiosità conduce la Carlotto a esaminare gli stretti legami esistenti tra la categoria economica vicentina, la fede e la liturgia. Ampio spazio veniva assicurato al patrono della fraglia, Sant’ Eligio (o Sant’ Eleuterio ), le cui celebrazioni “assumevano una valenza coesiva e di rafforzamento dello spirito di corpo efficacemente reso più vivo nelle processioni, quando gli aderenti alla fraglia sfilavano di seguito al palio dell’arte”.

E “lo stesso edificio intitolato al patrono era quello in cui si tenevano di preferenza le riunioni del capitolo della fraglia, la chiesa di Sant’ Eleuterio, nel nostro caso, situata nell’attuale contrà Santa Barbara”.

Ma perchè nacquero le corporazioni e in particolare quali furono i motivi che portarono gli orafi vicentini a riunirsi in fraglia? La Carlotto ne dà un preciso elenco: “Evitare la concorrenza mantenendo il monopolio sul mercato urbano, controllare la qualità dei prodotti ed evitare le frodi, stabilire i criteri di lavoro controllando la manodopera dipendente e regolamentando il calendario del lavoro. Fu a garanzia di queste fondamentali necessità – prosegue la studiosa – che le fraglie crearono una normativa statutaria che imitava gli ordinamenti del Comune e stabilirono l’elezione di propri ufficiali con compiti di rappresentanza e supervisione”.

Accompagnando il lettore attraverso un’interessante disamina dei “luoghi deputati” vicentini alla nascita e allo sviluppo delle botteghe orafe, analizzandone caratteristiche e motivi, la studiosa allarga la propria indagine a comprendere l’evoluzione della corporazione, la sua fase monopolistica, il suo rapporto con il lavoro dipendente. Ma gli Statuta forniscono anche una preziosa apertura sulle “famiglie” orafe, sugli antenati degli imprenditori di oggi, sulle loro vicende di bottega e non solo.

Dal nostro passato affiorano così personaggi come Giovanni figlio di Alberto Gallo residente nei “Collo” di Santa Corona. O ancora Litaldo figlio di Giovanni notaio di Litaldino, di cui si ritrovano tracce in un documento del 1320, o Manfredo del fu maestro Uberto di Albrighetto, garante per il comune nel 1306, o infine Corsio figlio del sarto Granleone. Tutti uomini che hanno lasciato il proprio segno nella storia che oggi fa grande l’oro “made in Vicenza”.