Evento culturale: donazione a tutte le Biblioteche del vicentino dell’antologia “Poesie alla Vicentina” di Emanuele Zuccato

GUARDA IL VIDEO DI WALTER STEFANI

Un’ iniziativa pubblica che l’editore Gilberto Padovan ha suggellato con un evento culturale, giovedì 18 dicembre 2014, presso il Palazzo Cordellina, a Vicenza. A ricevere questa preziosa raccolta sono tutte le Biblioteche Civiche del Vicentino. Nell’occasione lo scrittore Antonio Stefani, curatore del volume, e il memorialista Walter Stefani, hanno presentato l’opera. L’antologia raccoglie poesie scelte per la loro particolare rispondenza con lo spirito della

società vicentina degli anni compresi tra il 1920 e 1960. Un interessante epistolario, alcuni testi in versi e un suggestivo apparato iconografico, mai pubblicati prima, completano l’opera, pubblicata dall’editore Gilberto Padovan. L’edizione, con prefazione di G.A. Cibotto, è impostata su rigorosi criteri filologici e cronologici. Il “cantore di Vicenza”. Così Neri Pozza ricorda la figura del poeta: “Il camice bianco ben tirato sulla persona, Zuccato doveva aver ascoltato per anni le pene sommerse delle donne che gli arrivavano davanti per porgli i quesiti più imbarazzanti. E la sua pazienza d’ascoltare e quella nel consigliare il rimedio per la vitella stentata, il cavallo azzoppato, il ragazzo stitico e la donna disappetente, gli avevano fatto scuola di “pietas”, di umanità nel senso più benevolo e trepido. Da questo mondo nascevano le sue poesie dialettali: rapidi scherzi tirati via alla brava, con le rime giuste, per i quali diventava dicitore e attore, come se vi avesse concentrato il mondo”. Farmacista e poeta, dunque, come il Domenico Pittarini de “La politica dei villani”. Speziale in quella casa-bottega che tanti anni prima aveva ospitato pure, per qualche cena e qualche partita a carte serale, l’abate Zanella. Poeta di raccolte che già nei titoli dicono tutto: “Finestra sui Bèrizi” del ’52, “Vicenza te si la me morosa” del ’62, “Vecchia contrada” del ’66. Ma, ancor prima, commediografo con “El nome sul sfogio”, “Sior Felisse” e, guarda caso, “ La farmacia de le bone azion”, successi già negli anni Trenta grazie alle messinscene di Primo Piovesan e soci; poi altri lavori come “ Temporale de meza istà” e “ El pato a quatro” del 1958. E il narratore? Di storie e scorci tutti vicentini naturalmente, vedi “La campana di torre Bissara” del 1947, “Corte dei Roda” del 1949 o quella raccolta, intitolata “Vicenza di ieri” del 1964 che tante famiglie nostrane conservano gelosamente nella loro biblioteca, la copertina rossa con la Basilica Palladiana stagliata in nero da Otello De Maria. Scrittore a tutto tondo, dunque. Affettuoso, bonario, incline a suscitare commozione ma anche pronto a far scaturire un franco sorriso, a schizzare quadretti di sottile arguzia. E’, sicuramente, uno dei “personaggi” della variopinta Vicenza artistica fra le due guerre assieme a Ubaldo Oppi, Adolfo Giuriato, Checo Elsi, e compagnia. Li potevate trovare al Garofolin o alle Alpi, intenti ad animare quello che era un “cenacolo” nel vero senso della parola. O alla Nogarazza dei Bari, dove erano arrivati con la timonella e, all’altezza di Sant’Agostino, avevano convinto a seguirli anche quel sant’uomo di don Federico Mistrorigo. “Ragazzo del ’99”, fattosi presto robusto, baritono per diletto con alle spalle studi di canto, compiuti assieme ai maestri Mozzi e Pedrollo, Emanuele Zuccato era un “socialista di Dio” che credeva nella possibilità di un mondo migliore, nel riscatto degli umili, della povera gente. Per loro – e per la città – s’impegnava come consigliere comunale, scriveva versi accorati come quelli di “ Passa parola” o de “ La vera”. Ai più intimi affetti dedicava acquerelli come “ El gelsomin de me pora mama” . Ma sapeva mettere in rima anche la polenta, i suoi sentimenti di gaudente innamorato del mondo, concludendo che “ a far l’amore no xe peccato. Xe l’odio, tristo, a far la vita amara”. Né cessava, magari in qualche passeggiata notturna, i suoi colloqui con la “Cara Vicenza, cocola mia, / tesoro d’arte, de poesia, / de cose grande, miracolosamente: / Monte, la piassa, le bele tose”. “La vita – ha scritto ancora Neri Pozza – aveva senso solo se gliela lasciavano condire con la poesia; e per la poesia aveva gioie e pativa delusioni e delusioni con un candore innocente e disarmo. In questo senso egli resta, per il modo in cui visse, l’uomo più disinteressato che fosse dato incontrare”.