Blasone Episcopale Vicentino

Mons. Tullio Motterle

I miniaturisti esistono ancora. Appartati, solitari, un po’ schivi come chi sa di essere fuori del tempo e si sente, ma non senza orgoglio, anche fuori moda, impiegano le ore a strappare ai vari inchiostri, alle esilissime foglie d’oro i colori che “illuminano” le pergamene. “Alluminare” è il bel verbo che     usa Dante per quest’arte, derivandolo dal francese, ma tosto lo integra di suo, a definirne poeticamente il risultato, con l’altro che mette in bocca a Oderisi, miniatore di Gubbio: più ridon le carte/ che pannelleggia Franco bolognese (Purgatorio XI. 83.).

Ridono, dunque, le carte che i miniatori alluminano. Se un cruccio gli ingombra l’animo, è solo per quell’impossibilità di far uscire dalla loro fatica più di una copia per volta. L’opera rimane un unicum, prezioso fin che si vuole, ma destinato a restare privato e quindi oscuro.

Dev’essere andata così anche per il vicentino Giorgio Bertapelle, incisore e maestro d’incisione e miniatore provetto, che un giorno di qualche anno fa, gettando l’occhio dentro a una saletta della nostra Curia vescovile, ne osservò le pareti ingombre di scaffali su su fin sotto il soffitto, con le ante dipinte con file e file di stemmi vescovili. Era pane per i suoi denti e per i suoi gusti. In breve, quei cinquantotto stemmi, dal vescovo Pistore (1184 – 1202?) ad Arnoldo Onisto (1971 – 1988), passarono dal legno degli armadi ai fogli di pergamena del miniatore, il quale, ovviamente, aggiunse il cinquantanovesimo di Pietro Nonis. Né si accontentò di copiare. La miniatura deve “far ridere” le carte, e Bertapelle rifiutò l’inquadratura grigia dell’originale per far capire i suoi stemmi in pagine incorniciate dai fregi più vari che la tradizione e la fantasia, con un giusto un po’ liberty, gli suggerivano.

Non si fermò lì. Nel codice, nel volume che andava costruendo, lo stemma del vescovo cadeva a destra, sul recto del foglio membranaceo, ma la faccia opposta rimaneva muta. Fu così che, trattandosi di vescovi, l’artista pensò di rivolgersi allo storico della Chiesa vicentina mons. Giovanni Mantese, e lo trovò non solo peritissimo di quella materia e tale da risolvere alcuni dubbi insortigli circa la retta successione dei vescovi vicentini (materia non priva di problemi), ma disposto, anzi entusiasticamente disposto, a dotare quel volume di un’introduzione generale e di essenziali schede biografiche per ciascuno dei cinquantanove blasoni.

Purtroppo la salute e la vita di mons. Mantese erano in rapido declino e i testi da lui approntati non raggiunsero la compiutezza e la rifinitura che  si potevano desiderare dall’insigne studioso. Ce se n’accorse quando, negli estremi giorni di sua vita, e premendo lui in accordo con il miniatore che si trovasse modo di estendere a tutti attraverso la stampa il godimento di quelle belle pagine dove il suo testo appariva trascritto in eleganti caratteri gotici, alcuni amici ebbero tra mano il manoscritto e si posero a pensare al modo di realizzare quel desiderio.

Il vescovo stesso vi era particolarmente, affettuosamente interessato.

A far intravedere una soluzione fu provvidenziale la visita a mons. Nonis dell’avvocato padovano Ivone Cacciavillani, che assicurò il concorso di un gruppo di amici vicentini. La pronta disponibilità dell’editore Gilberto Padovan condusse in porto l’operazione. Mons. Mantese non la potè concretamente vedere conclusa, ma fu felice di riceverne formale assicurazione prima che la morte lo rapisse il 18 novembre 1992.

Esce il volume Blasone Episcopale Vicentino dal secolo XII al secolo XX, assai elegante la veste curata da Gilberto Padovan . L’opera è rivista e integrata nei testi da un gruppo di amici e discepoli di mons. Mantese: Ermenegildo Reato, Edoardo Ghiotto, Giovanni Grendene, Giorgio Zacchello, Tullio Motterle, unanimi  tutti nel rispettare il testo primitivo riducendosi a integrarlo soltanto dove necessario, con il ricorso, in tal caso, alla copiosa bibliografia mantesiana sull’argomento.

La presentazione, dettata da mons. Pietro Nonis, dev’essere attentamente considerata non solo per l’affettuoso omaggio alla memoria di mons. Mantese e per i puntuali riferimenti storici, ma anche e soprattutto per quanto scrive intorno all’argomento specifico del “blasone”. Con finezza, e non senza un garbato sorriso, egli accenna al significato del blasone, all’origine storica degli stemmi e delle “armi”, assai di frequente fregiati dal segno cristiano della croce, ma in sostanza innalzati a simboli di vanità e di potere terreno, anche se ornavano cappe vescovili. In realtà questa variopinta rassegna di armi episcopali, che copre più di otto secoli, lascia alquanto in ombra, particolarmente nelle età più antiche, l’azione dello Spirito, che anima sempre la Chiesa e che è viva anche là dove a capo di essa siede un uomo praticamente d’arme, plane militaris, come il vescovo Pistore. Per questa ragione è venuto spontanea ai curatori l’idea di aprire il volume con la citazione di una celebre pagina di sant’Agostino sulle temibili responsabilità del vescovo come pastore d’anime.

L’araldica, tutti sanno, è una scienza con le sue norme rigorose e minuziose, ma volerle riscontrare osservate a puntino nelle immagini di questo libro sarebbe fatica sprecata. La serie di stemmi dipinti sugli armadi della Curia vicentina, da cui il miniatore Bertapelle ha attinto, non ha alcuna pretesa filologica. E del resto il vescovo mons. Nonis, scherzando amabilmente sullo scarso valore araldico del proprio stemma – recante l’immagine della Madonna di Monte Berico in campo bianco rosso – si appella, da pastore d’anime qual è oggi, alla comprensione della gente, la quale capisce al di là dei rigidi schemi dell’araldica.

Nel cammino faticoso della storia, la Chiesa vicentina, tutta la Chiesa, sente costante il bisogno di un’intima intesa tra i fedeli e il loro Vescovo. Il blasone, che simbolicamente richiama la presenza del pastore, serve a ravvivare quell’intesa.

Vedere radunata in un volume tutta la serie colorita  delle “imprese” vescovili diventa una festa per gli occhi e insieme un  invito a ripercorrere gli ultimi otto secoli di vita della comunità cristiana vicentina.