Panorami Veneti: Storia e Iconografia

(di Lionello Puppi)

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Panorami delle città venete

Prefazione

Fra una torre e un campanile si dispongono le nitide lettere maiuscole rosse che scandiscono il nome YTALIA nella rappresentazione dell’Evangelista Marco af­fre­sca­ta da Cimabue nella chiesa superiore della basilica di San Francesco ad Assisi; sotto, è un precipitar di colonnati, cu­pole, frontoni, logge, mastii che, più in basso, il convergere di due cortine murarie merlate sull’arcone di una porta, argina e suggella: e non v’è dubbio che si tratti di una delle prime vedute di città – giacché è Roma, veramente, che il pittore schiera al nostro sguardo, come avverte Federico Zeri in un suo libretto memorabile su La percezione visiva del­l’Ita­lia e degli italiani – che ci offra la pittura dell’Occidente.

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L’assemblaggio dei singoli monumenti sembra casuale, così come la scelta di essi, e non d’altri: e, viceversa, non lo sono giacché, se pur disat­tendono qualsivoglia obbedienza a regole di fedeltà realistica o storica, s’attendono ad un’istanza simbolica nella sua duplice esigenza mnemonica e metaforica.

La selezione, infatti, privilegia quei segni che, nella memoria e nell’immaginario del pubblico contemporaneo, designavano quasi per antonomasia e inequivocabilmente l’Urbe, mentre la centralità dell’edificio circolare e cupolato, al tempo stesso, allude al sepolcro di Pietro, e dunque alla fondazione romana irrevocabile della Chiesa, e al sepolcro di Cristo in Gerusalemme, che il sacrificio del Redentore riscattava dalla sua condizione di città terrena nel presagio della città celeste.

Nell’ambito veneto, l’assemblaggio degli ingredienti monumentali selezionati rivendica la gloria di una fondazione antica, romana: anzi, la continuità della città attuale con la città antica.

Così, per Verona, la precoce, celeberrima cosiddetta Iconografia rateriana (un disegno che il Mor data tra il 915 e il 922, appartenente ad un codice attribuito a Raterio e conservato sino al 1793 nel monastero belga di Lobbes, ma che conosciamo oggi solo attraverso la copia che nel 1732 ne fece trarre Scipione Maffei e grazie a quella ottenuta da un pittore innominato nel 1752 dal Biancolini, che ce l’ha trasmessa nella ri­produzione a stampa allegata al suo opuscolo Dei Vescovi […] di Verona stampato cinque anni dopo) schiera la chiesa di San Pietro con i gradus che ne guadagnano l’ubicazione elevata sul mons, il teatro romano come arena minor, il palatium teodoriciano, il pons marmoreus che attraversa la serpentina dell’Adige, per approdare al THEATRUM, l’Arena, as­sunta a emblema. “Nobile, praecipuum, memorabile, grande Theatrum, / ad decus ex­tru­ctum Sacra Verona tuum”: in quanto assomma ed esalta una perenne grandezza impalcata “dedalea […] arte viisque” (ed è sintomatico che un tal simbolo, che re­sterà un topos ineludibile nella vedutistica veronese, scompaia polemicamente dalla xilografia in frontespizio del filoveneziano Fioreto del Corna da Soncino, stampato nel 1503, e vi si iteri, a rimpiazzarlo, il leone marciano).

In Padova, l’orgoglio an­tico si sbalza nell’immagine della tomba del fondatore Antenore, che par d’intravvedere in riproduzioni grafiche secentesche di reperti medaglistici del XIII secolo, o nella carena del palazzo della Ragione, come nel modello plastico della tomba di Ubertino da Carrara di Andriolo de Santi agli Eremitani e nell’affresco di Giusto de’ Menabuoi nella cappella del b. Luca Belludi al Santo o, infine, nelle cupole e torrette della basilica dedicata al rifondatore cristiano Antonio come, in avvio ad una tradizione imperterrita, nel disegno, di il­luminante eloquenza, alla c. 10v del co­siddetto Libretto di Giusto del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Roma, nel quale è Antenore in foggia romana a reggere il modello di Patavium da cui svettano, dominati dal sole, i campanili antoniani: mentre par profilarsi la cupola conica “dell’Angelo” allusiva dell’Anastasis, preconizzata dall’Assidua.

Padova, “aedificante Deo, Jerusalem novam”. Ci torneremo, tra poco. Per un buon tratto la rappresentazione delle vedute urbane – grafica, pittorica, plastica – non si discosta da siffatte strategie compositive irrevocabilmente antinaturalistiche e impalcate da un sistema di rappresentazione paratattico che schiera gli ingredienti – sottolinea lo Zeri – “con la sintetica stringatezza di un sigillo o di un’allegoria”, e ne possiam ri­conoscere le derive sin alle tavole del Supplementum Chronicarum Orbis del Bergomense – fra’ Jacopo Filippo Foresti – pubblicato in Venezia nel 1483, dove, sovente, lo smarrimento, frattanto intervenuto, del significato simbolico e mnemonico dei frammenti monumentali utilizzati e dei nessi che li rilegavano, si risolve spesso in assemblaggi arbitrari e fantasiosi, addirittura intercambiabili (la stessa tavola utilizzata a illustrare città diverse).

Nello stesso anno 1483, un giovane patrizio veneziano, Marin Sanudo, intraprendeva un viaggio per i maggiori e minori centri urbani della terraferma che la Serenissima, a partir dall’avvio del se­colo XV, aveva assicurato al proprio dominio: si sofferma sulle particolarità di ciascuno, ne schizza approssimativamente qualche dettaglio, ma l’orgoglio prevale – come Gaetano Cozzi ha, con insistenza, sottolineato in un saggio memorabile – di riconoscerli omologati dall’insegna marciana che, in qualche guisa, ne sfocava, disponendoli entro una costellazione politica governata da Venezia e assoggettandoli ai superiori destini di questa, l’identità peculiare e incomparabile che ciascuno di essi era venuto asserendo, garantendola sulla elaborazione di miti di fondazione e sul riconoscimento dei segni monumentali di memoria che li rappresentavano con una pregnanza metaforica che quell’identità rimetteva, in modi di predestinazione e di legittimazione, alla volontà divina.

Si tratta di un processo di costruzione d’autocoscienza che asseconda la complessa vicenda della rinascita della città in Occidente tra IX e X secolo e, contro le tesi pirenniane, nel suo stesso antico invaso di pietra, come il luogo irripetibile di “cittadini” che hanno conquistato la consapevolezza d’essere tali, e “sono orgogliosi di ap­partenere a una comunità superiore al villaggio – lo constatava Roberto Sabatino Lopez nella miliare relazione sui centri urbani dell’Europa postcarolingia, letta alla II Settimana di studio del Centro spoletino sull’Alto Medioevo – per potenza, per ricchezza, per cultura, per tradizioni artistiche, per un passato memorabile, per l’attitudine ad uno sforzo comune”.

Ed è processo che, parallelamente al disegno della propria rappresentazione visiva, vien elaborato in panegirici letterari che tragitteranno dai Versus de Mediolano civitate o de Verona al Liber Pergaminus di Mosè del Brolo e al De magnalibus Mediolani di Bonvesin de la Riva alla laudatio umanistica, giusta l’analisi puntuale di H. Baron, asserendo la compiuta perfezione spaziale (nulla, vanterà il Bruni nella laus della florentinae urbis, “è sproporzionato, sconveniente, assurdo, vago; ogni cosa occupa il suo posto, che non è solo chiaramente determinato, ma anche in giusto rapporto con tutto il resto”), di un ordine sociale reso compatto dall’imperterrita certezza ideologica, lucidamente analizzata da Gramsci.

“La città – scriveva Francesco di Giorgio Martini – non è se non di cittadini unità” e, pertanto, la sua immagine si proporziona alla perfezione del corpo dell’“omo chiamato piccolo [giacchè] in sé tutte le generali perfezioni del mondo totale contiene” e si realizza, per­tanto, come “bellezza, utilità, ornamento entro alle mura”, la cui circolarità allude ad una pretesa di centralità tolemaica, che la cartografia evidenzia in immagini di inequivocabile eloquenza visiva.

Se, nella pianta di Roma di fra’ Paolino minorita, databile fra 1315 e 1325, la registrazione di un impianto urbano orbicolare mira a cogliere entro quell’insularità le emergenze canoniche (che ricorrono nell’YTALIA di Cimabue; e preludono ai tipi e agli stereotipi della Roma antica quali saran codificati da Fabio Calvo) della sovrana identità dell’Urbe, senza preoccupazione palese di descrivere la realtà topografica ad essa esterna, nella pianta di Milano inserita nella Chronica extravagans di Galvano Fiamma, riferibile a tre quarti di secolo più tardi, la perfetta circolarità dell’immagine urbana non elude il confronto con la percezione di una “vasta regione di cui essa è il centro”, e che designa puranco “le città della sua dominazione”.

Ma per venir all’area storico-geografica che ci interessa qui, ecco – siam sulla metà del Quattrocento, ma di documenti si tratta che impalcano nostalgie preveneziane – la carta di Verona e suo territorio dell’Archivio di Stato di Venezia, edita e commentata dall’Almagià; ecco, nel disegno di Annibale Maggi del 1449, pervenutoci nell’apografo cinquecentesco dell’Ambrosiana di Milano – ma ch’è ri­preso per tempo nella pergamena di Francesco Squarcione del Museo civico di Padova – la veduta in circuito della città antenorea murata, “quando la terra se governava a populo”, al centro di una lata circonferenza i cui margini son marcati dalla presenza delle città vicine, Castelfranco, Venezia, – designata da una ripresa dell’area marciana che accetta e perpetua lo stereotipo della veduta della città, di cui diremo subito, e di cui, non per caso, copiando il reperto squarcionesco nell’ormai solida e scontata pax veneta del tardo Seicento, il Ruffoni dilaterà la scala, squilibrando sulla Dominante l’assetto compositivo dell’immagine territoriale – Noale, Vicenza, Rovigo.

L’intenzione di rivendicare il ruolo di supremazia della dignità cittadina di Patavium designata dal duplice anello murario, spicca nel confronto proprio con le immagini urbane vicine per la capziosità della scala adottata, che le rimpicciolisce, ma nel momento stesso in cui, nella furibonda concorrenza troppo spesso tradotta in estenuanti guerre di tutti contro tutti, che connota l’età dei Comuni e delle Signorie, anche quelle città, dall’orgoglio di Padova ridotte a satelliti ruotanti attorno alla sua centralità sovrana – per insistere sulla logica tolemaica di simili rappresentazioni –, rivendicavano (e lo ha ben colto Anna Bellavitis in bel saggio, pubblicato nel recente volume curato dalla Svalduz su “l’ambizione di essere città”), rappresentandola, una propria centralità.

Ed è sempre, l’abbiam anticipato, la rincorsa, nelle laudes, alla precocità della fondazione e alla figura di un eroe fondatore di stirpe divina o pre-destinato dalla volontà divina; il ricorso, nella rappresentazione visiva, ai segni d’antichità o all’identificazione metaforica con Gerusalemme, cui indietro abbiamo alluso, suggerita dalla relazione tra l’edificazione della città santa e la costruzione di Aquisgrana, sanzionata dalla cerimonia di consacrazione che precedette l’incoronazione di Carlo Magno la notte di Natale dell’Ottocento e divulgata dagli elogi poetici, ma fondata dalla complessa tematica agostiniana de civitate Dei, in obbedienza a meccanismi studiati da André Chastel su materiali miniati del XIV e del XV secolo illustranti vedute idealizzate di Firenze e di Roma: e alfine garantita, so­vente e ad ogni buon conto, dalla translatio, come traslato, del Santo Sepolcro – dell’Anastasis – nell’ambito di una concreta realtà urbana alternativa.

La metafora, nel processo di costruzione della veduta di Venezia, è, veramente, profonda, essenziale e inalienabile perché intrinseca alla costruzione di un mito – nel contesto di una vicenda storica che sospende l’origine della città tra Oriente e Occidente, estraniandola dalle vicissitudini della rinascita urbana in Europa – il quale esclude la mediazione di un eroe fondatore, ed anzi una fondazione tout–court, per rimetter ad un gesto diretto della volontà divina (“non per mano d’uomo fabbricata”) la genesi di un evento la cui incomparabilità di presagio gerosolimitano e celeste s’esalta proprio nell’assenza di quelle mura che suggellano ogni altra città, rimandandola al modello inaugurato da Caino che la maledizione divina aveva dannato al ruolo, estenuante e interminabile, di conditor urbium.

Ma s’arricchisce, la metafora, d’altri ingredienti ancora, che ad essa aggregano quelli della consapevolezza che la legittimazione divina della città include il destino di una renovatio imperii christiani da inverare attraverso una successione costantinopolitana, e che si rappresenta nella vicenda edilizia della basilica di San Marco, modellata nella sua prima redazione (sec. IX), come ha puntualizzato il Dorigo da ultimo, sul tempio gerosolimitano del “sepulchrum Christi”, e, nella ricostruzione contariniana (sec. XI), sull’Apostoleion di Bisanzio.

La veduta di Venezia, pertanto, si vien incentrando sul nucleo di una crasi, ricalcata sull’episodio centrale delle illustrazioni circolanti di Hierosolima, includenti il Templum e il Palatium Salomonis che troveranno suggello nella tavola del Reuwich per il Sanctarum Peregrinationum Opusculum im­presso a Magonza nel 1486, di palazzo ducale e cupole della basilica: che, ancor disgiunti, sebbene accostati, per esempio, nel foglio 132r del cod. lat. 4802 della Bibliothèque Nationale di Parigi, si saldano nelle immagini dei portolani pubblicate dal Bettini, fissando il topos che sarà divulgato da W. Rolewinck nel Fasciculus Temporum edito a Colonia nel 1479, e raccolto, e rilanciato ad una tradizione di lunghissima lena, da Jacopo de Barbari nella veduta prospettica dell’anno MD la cui fortuna sino al fatidico 1797 (ma, invero, ancor nel secolo successivo) è attestata dal fondamentale repertorio dello Schulz.

E se Verona più volentieri consegna ai Versus apologetici la propria autocoscienza di “minor Jerusalem” mentre, Padova vi si riconosce nella trasfigurazione apocalittica delle sue sette chiese, evocata da Giusto de’ Menabuoi nell’affresco del battistero della cattedrale e nella Visio Egidii di Giovanni da Nono, Treviso vi si ritrova nell’ipostatizzazione dell’étimo, tendenziosamente riconosciuto e asserito, del suo toponimo.

Il tricipitium, infatti, in cui si stampano i tre visi – allegorici delle virtù di “modestia”, “iustitia” e “libertas”, che si capovolgono in quelli di “molestia”, “avaritia”, “paupertas” – che, nel capolettera S del cap. 216 della compilazione degli statuti della città nella seconda parte del cod. 448 della locale Biblioteca civica (1233 ca.), antropomorfizzano – le tre torri sovrastanti lo schieramento paratattico dei monumenti – i principali luoghi di devozione –, rappresenta il profilo della città nel “sigillum magnum Communis Tarvisii” conservato in Ca’ de Noal.

E le une e l’altro stanno, in accordo con la convenzione compositiva di cui poco sopra abbiam preso atto, entro un circolo i cui limiti son marcati dai nomi dei luoghi sino ai quali si spingeva il dominio del Comune nel momento più fiorente e orgoglioso della sua giovane vita: se – le une e l’altro, ancora – si confondono nel modello della città retto da S. Caterina nell’affresco della chiesa omonima attribuito a Tomaso da Modena, si compongono nello sfondo del Congedo di Sant’Orsola da papa Ciriaco, già nella chiesa di S. Margherita e ora nel Museo civico, per certo di Tomaso, asserendo, frattanto, in un momento in cui la leggenda serpeggia dell’intenzione del trevigiano Niccolò Boccasini, papa col nome di Benedetto XI, di trasferire nella propria città il trono di Pietro, la metafora Treviso-Roma in una macchina triangolare che sarà presa a mo­dello dal Foresti per la tavola Tarvisium Civitas la quale, nel Supplementum Supplementi, ovvero Novissime Historiarum Omnium Ripercussiones (1503), so­stituirà quella, tutt’affatto fantastica, edita nel già citato Supplementum Chronicarum Orbis (1483).

Ma, alfine, negli sfondi delle Storie di Maria e Gesù del cosiddetto Maestro degli Innocenti nella chiesa di S. Caterina, si esalta, alla luce delle già mentovate immagini di Hierosolima, nel richiamo a Gerusalemme.

La crisi, e il venir meno, dell’eloquenza del simbolo e dei sistemi di rappresentazione antinaturalistica e paratattica dello spazio, con la conseguente affermazione del realismo e della rappresentazione prospettica – che, non per ca­so, coincidono con la decadenza della città comunale; e che trovano perfetto riscontro, sul piano letterario, nella trasformazione della struttura letteraria dei versus nelle laudes e, alfine, nella descrittività delle guide – si riflettono inevitabilmente e cospicuamente nella costruzione della veduta che, tuttavia, continua ad escludere la neutralità dell’obiettività della ripresa del townscape per cogliere e sbalzare peculiarità di connotazione come segni di identità attraverso il suo rapporto, se evocata all’interno della raffigurazione di un episodio lato sensu narrativo (la sua collocazione a cornice o sfondo di una scena della Passione di Cristo, ad esempio, perpetua la metafora di Gerusalemme), con il contesto complessivo dell’immagine, op­pure, attraverso la scelta dell’asse ottico dell’inquadratura in quanto privilegi, ai fini della percezione mnemonica, quelle emergenze monumentali topiche che fossero immediatamente associabili ad una determinata e complessiva realtà urbana.

Così, mentre Venezia continua a riconoscersi sul nodo centripeto delle piazze marciane – che lo stesso “occhio ingannevole” che presiede alla veduta capricciosa stenta ad eludere: lo farà, addirittura abolendolo, il giovane Joseph Heinz nell’impressionante invenzione della Raccolta Giannelli Viscardi di Palazzo Albrizzi – alla lor volta, Padova, Vicenza, Verona assumeranno a fuoco – e, insomma, a re­ferenza identificante ancorché impoverita della potente carica simbolica originaria – rispettivamente, la cortina muraria, quasi un boccascena capace di conferir slancio alla selva di coperture ricurve, tra cui spiccano la carena del Palazzo della Ragione e le cupole di S. Giustina e del Santo; il sistema di duomo, “Basilica”, torre e piazze, additato dalle scelte pittoriche del Giambellino e del Fogolino e sanzionato dai frontespizi nei testi d’elogio e di storica memoria del Dra­gonzino e del Marzari; la duplice cur­va dell’Adige con i suoi ponti lapidei che, via via, persin obbligando ad alzar l’angolo di ripresa per farsi accogliere, soppianta quell’Arena, dominante nella ve­duta del Ligozzi e che già, talora, si isolava a margine affinché meglio ne spiccasse la mole.

Treviso, viceversa, vien smarrendo i suoi riferimenti trinari, e ripara entro la gagliarda robustezza della muraglia cinquecentesca, lasciandone intravvedere l’eleganza severa delle porte; Rovigo e Belluno continuano a manifestare una sorta di schiva reticenza a quel farsi vedere, le cui coordinate abbiam tentato, in sintesi estrema, di perseguir sin qui (ma qualcosa di esplicito ed articolato diremo in conclusione), movendo dal presupposto che una città si vede, necessariamente, così come essa vuol farsi ve­dere.

Di conseguenza, non ci siam preoccupati di discriminare i veicoli di genere – per dir così – di sistemi di rappresentazione, di tecniche attraverso i quali le immagini urbane si son venute asserendo, né di riconoscere le ragioni varie e contestuali della loro produzione, del loro mercato, della loro circolazione: e neppur provvederemo adesso, limitandoci a ribadire come la tensione a farsi vedere si venga spostando, nel tempo, dalla volontà d’asserire, per allusioni simboliche, una singolarità e una bellezza che son tali per le condizioni storiche e provvidenziali che le hanno generate, ad una preoccupazione di cogliere e fissare in sé, per intrinseche qualità, quella singolarità e quella bellezza.

Se la prima si manifesta soprattutto quale sussidio di illustrazione visiva a cronache locali o ab origine mundi o è funzionale alle ragioni conoscitive e divulgative che presiedono alla confezione e alla distribuzione dei grandi re­pertori o atlanti di città, la seconda sprigionerà il fenomeno del vedutismo, rendendosi funzionale alle ragioni del Grand-Tour e, ben presto ed insomma, al mercato turistico, coinvolgendo, accanto al sin qui predominante impiego delle tecniche dell’incisione, l’attività pittorica.

È Venezia, in ogni caso, che essa privilegia sin dal Seicento, proprio con l’apparizione del pittore d’Augusta Joseph Heinz il giovane il quale giunge tra le Lagune prima del 1625 per restarvi sino alla morte sul finir degli anni Settanta del secolo; e, tra i “quadretti capricciosissimi “che ci lascerà e di cui s’è anticipato, “stravaganze di fantasia non dedotte da antico esempio” – che non dispiacevano al Lanzi –, dissemina qualche immagine della città dei Dogi, scorci di campi e di campielli in momenti di festa, aulica o popolare.

E sarà ancora un “foresto”, Gaspar van Wittel – un olandese di Utrecht approdato a Roma per tempo; e vi aveva alimentato il bagaglio figurativo originario, e quel gusto per la pittura di paesaggio in particolare, con la lezione di Annibale Carracci e del Domenichino ma guardando anche ad un Viviano Codazzi, l’autentico “inventore della veduta realistica” – che affronterà “con occhi nuovi”, sottolinea Giuliano Briganti, “un paesaggio così strutturalmente storico ed antico” come quello di Roma e, quando vi soggiornerà tra l694 e il l695, di Venezia, stabilendone “l’impostazione visiva e i punti di riferimento” che, dopo il friulano Luca Carlevarijs, di cui solo da poco s’é cominciato ad intendere il talento e la grandezza, il Canaletto raccoglierà.

Ma dopo aver rimossa la tentazione dell’impostazione scenografica, che gli veniva dall’educazione paterna e che magari, nel corso del precoce indugio romano, l’incontro con le opere del Pannini poté dapprima aver confortato, attraverso – l’ha ben colto André Corboz – una coscienza newtoniana della luce (la “luce bianca” che colpisce i corpi colorati facendoli risaltare e però nella “totale trasparenza dell’aria”) di guisa che il dettaglio potesse spiccare in piena nitidezza prescindendo dalla distanza dell’osservatore: e, per l’appunto, “non si tratta affatto di un dato naturalistico”.

Men che mai, poi e viceversa, quando si faccia caso che esso costruisce l’invaso spaziale all’interno del quale, in ispecie riprendendo le aree più cariche d’allusività simboliche al mito e ai superiori destini marciani, specularmente alla lenta, inesorabile dissoluzione politica della Serenissima, Canaletto introduce – per sottrazioni, scambi, spostamento d’ingredienti ar­chitettonici e decorativi – continui, sottili ma eloquenti scarti all’immagine della città reale, trasfigurandola nella “Venezia immaginaria” cui sempre il Corboz ha dedicato un volume memorabile, e che Federico Zeri avverte “resa con la sottile, intima sensibilità che in letteratura appare soltanto alla fine dell’Ottocento […], la città insomma di Henry James degli Aspern Papers”, la quale si dissolve in fosforescenze marine nelle vedute di Claude Monet o in crepuscoli infuocati in quelle di Turner.

Che se, nel nipote di Canaletto, Bernardo Bellotto, il quale aveva indugiato anche su Verona prima di intraprendere il definitivo cammino verso Sassonia e Polonia, la sensibilità dello zio era stata interpretata da un segno più marcato e nitido e da un lume più freddo, quasi raggelato ma non meno irreale, in Francesco Guardi Venezia era ormai solo “sognata” irrealmente remota (Zeri): per farsi, quindi, con Ippolito Caffi – che qualche tenera immagine di Belluno ci confida – notturna d’apparizioni lunari e d’eclissi di sole o di tramonti corruschi o di palazzi esistenti solo nell’istante dell’esplosione di fuochi d’artificio o di nebbie e di neve, ed assestarsi, alfine, nel “silenzioso disfacimento” delle periferie di Luigi Querena e di Pietro Fragiacomo, negli scorci di muri scrostati gremiti di popolani vocianti di Giacomo Favretto.

Ma, insomma, dimensione visionaria, pur nell’apparente realismo, sempre.

Laddove, ci accade di constatare una ambiguità, se non proprio una contraddizione: che sta nel rapporto tra la presunzione dell’esigenza dell’obiettività, precisa e rigorosa, della ripresa (e di qui il ricorso a sussidi tecnici adeguati: per esempio, alla “camera ottica”) e la mediazione soggettiva e il progetto (ci insisteremmo tra poco) di chi riprende.

In realtà, abbiamo ormai ben imparato che la veduta, per essere apprezzata ai livelli dell’autentica dignità artistica, tanto più tende a intensificare la propria vocazione visionaria, allorché l’avvento della fotografia insinua il dubbio, pena lo scender sul terreno di un confronto conflittuale e perdente, del quale, nei Picutti e nei Moro, via via che vengono sfornando album di vedute di Venezia e delle città venete, cogliamo il presagio, e che, alla fin dei conti, finì per decretare la crisi e la decadenza del vedutismo tradizionale, se non, posto che qualche requiem lo abbiamo già ascoltato, la sua eclissi inevitabile, e la sua morte: sino alla resurrezione del tema della città, dopo le inquietudini dell’Impressionismo, dal Futurismo alla Metafisica all’Espressionismo.

Le tavole che compongono questo libro, non contestano affatto simili conclusioni, nel momento in cui rappresentano una sorta di scommessa – dell’editore Gilberto Padovan – sorprendente ma, all’evidenza delle immagini, nient’affatto stravagante, sull’attualità di un recupero, consapevole della storia complicata che precede, del genere della veduta tradizionale.

E, ciò, non già attraverso il filtro di un “occhio ingannevole” che, selezionati e riprodotti in maniera esatta singoli elementi di una realtà urbana, ne effettui il montaggio capriccioso, giacché, fatta salva l’esattezza sin alla minuzia d’ogni ingrediente, naturale e costruito, e del loro disporsi all’occhio, è proprio dalla scelta della postazione, per dir così, dello sguardo – dal taglio, insomma, della ripresa; dalla sua calibratura intenzionale calcolatissima, che apre all’hic et nunc di una dimensione territoriale aggredita dall’urbanizzazione – che vien il senso visionario attuale dei componimenti.

E si esalta, allorché, nella serie di sette tavole dedicate a Venezia, fa fluire l’episodio marciano, ormai svuotato d’ogni sacralità, e quindi non più centro, entro un giro d’orizzonte che, abbracciando il bacino, scorre, e chiude, sulla punta di San Giorgio: sempre con un dominio sovrano della manualità che muove la penna, sfidando la meccanicità del mezzo fotografico.

Tutto ciò merita qualche ulteriore ri­fles­sione dopo che, tuttavia, sia stato sgom­brato il campo da un possibile equivoco, vale a dire che i disegni a matita trascritti nelle matrici litografiche da cui son state impresse le tavole possano venire in qualche misura assimilati alle tecniche, ai procedimenti e, per dir così, alla filosofia dell’Iperrealismo che qualche notabile fortuna conobbe nel corso degli anni Settanta, sovrattutto negli Stati Uniti d’America, trovando in Chuck Close, Duane Hanson e, in ispecie, in John De Andrea i suoi esponenti più noti e interessanti. Com’è noto, infatti, l’Iperrealismo – ch’è figliazione, parallela alla diramazione della “New Image Painting”, della “Pop Art” – è l’esito ibrido di una sorta di connubio tra fotografia e pittura, laddove la prima costituisce il riferimento materiale necessario all’esercizio della seconda, sostituendosi alla traccia tradizionale rappresentata dalla grafica del disegno preparatorio o puranco dello schizzo e dell’abbozzo.

È la foto dell’oggetto – figura umana, spazio architettonico o urbano – che viene proiettata sulla tela e che viene successivamente dipinta con un effetto che di fatto aliena, esasperandone le connotazioni, lo stesso dato reale fissato dall’obiettività meccanica dell’apparecchio foto-grafico, rendendola, se possiam espri-merci così, più reale della sua stessa realtà, dunque e per l’appunto, iper-reale.

Ben altro è il procedimento adottato da Guido Albanello.

Se pur, scelto il taglio della ripresa, ne coglie e fissa i limiti orizzontali col quadrangolare, lavora poi in loco, disegnando col lapis sul foglio di carta a mano libera; se memorizza sulla pellicola fotografica qualche dettaglio, é per definirlo con la maggior precisione possibile, sempre a mano libera, stendendo in pulito l’immagine definitiva, attraverso trapassi dalla macchia scura al grigio lieve al bianco, regolati da un lume zenitale che, come in Canaletto, lascia pieno risalto anche ai dettagli più minuti e lontani.

V’è dell’altro, ovviamente, su cui val la pena di riflettere: né si tratta solo di ragionare e sottolineare la straordinaria singolarità ed i virtuosismi esatti e inquietanti, geometrici e vertiginosi, calibrati e preziosi, umbratili ed abbaglianti, della microscrittura vedutistica di Albanello; tanto, si sbalza da sé, rendendo pleonastico e ozioso, persin impertinente (al senso etimologico) e ingombrante, qualsivoglia ecfrastico commento.

Convien piuttosto considerar le vedute nell’ottica metodologica di uno stimolante, e poco letto, saggio del compianto Louis Marin come “proposte di ricerca” intorno alla “mappa della città e il suo ritratto” sul pretesto dell’Utopia di Tommaso Moro.

Se la veduta di una città si identifica, come abbiam constatato, con un progetto ideologico – se non è che la scrittura, come dessein (in quanto intenzione) / dessin (in quanto rappresentazione), di questo progetto; se, in altri termini, la veduta della città “rappresenta la produzione di un discorso sulla città” –; se all’analisi decostruttiva di questa rappresentazione tocca impalcare l’ideologia sulla quale quel discorso si fonda e se essa è un’utopica in quanto “lascia apparire luoghi e spazi non coerenti” il cui insieme, però, raffigura il progetto di cui essa veduta è portatrice: qual è il dispositivo intenzionale delle vedute di Albanello?

Formulata codesta sequenza di enunciazioni e il quesito, Marin passa ad un successivo, conseguente e coerente ordine di considerazioni. In quanto la veduta della città era anche chiamata “ritratto di una città”, di fatto “il ritratto di un individuo e quello di una città pongono problemi simili riconducibili tutti alla città come individuo”.

Tralasciamo qui le domande che ne derivano intorno ai criteri di somiglianza, d’esattezza, fedeltà ed ai loro effetti, per constatare che “in ritratto (“portrait”) di città, il tratto, la linea tracciata, rinvia alla traccia, alle vestigia, al resto o alla ‘rovina’, ma anche al dessin (ripetiamo: rappresentazione) che è un dessein (ripetiamo: intenzione) e, in fin dei conti, al progetto: questo dessin/dessein costituirebbe dunque “la struttura stessa del progetto come struttura del­l’enunciazione”.

È evidente, allora, che la veduta della città, il suo ritratto, connette, coniuga la traccia di un passato che sussiste e il presagio di un futuro da realizzare: ma ravvisare ciò significa già decostruire la rappresentazione della città, facendo della veduta un testo, “ossia un tessuto, cioé una trama e una concatenazione, una combinazione” di icona e simbolo di cui occorre chiederci quali siano gli effetti di senso della loro interferenza reciproca, per cogliere il funzionamento del dispositivo vedutistico “come intenzionalità significante” nel suo duplice significato di progetto e traccia in quanto “obiettivo di trasformazione della città e delle vestigia inscritte nella sua rappresentazione, un dessein strutturante il suo futuro possibile e un dessin che ne descrive la messa in scena”.

Ed abbiamo già veduto come nella scelta del punto di vista (“ecco, dunque, da dove dovete vedere la città per conoscerne la verità”), nell’obliteramento dei simboli – ma puranco nell’ampiezza dell’angolatura e nella imparziale, e omologante, luminosità zenitale – e nel dilagar diffuso Albanello adombri la morte ineluttabile della città come centro storico.

Il recupero del genere artistico tradizionale della veduta ed il suo esercizio sovrano e impressionante, ben lungi dal costituire un anacronismo, rappresentano, polemicamente e ironicamente quell’intenzionalità significante.