Ristampate le litografie dei fratelli Adam, incisori austriaci del 1848

1848,  Vicenza e il Veneto.
I comitati provvisori dipartimentali
Mauro Passarin   (direttore del Museo del Risorgimento del Comune di Vicenza)

Quando nel gennaio del 1848, in conseguenza alle risoluzioni imposte alle provincie dell’Impero da Ferdinando I d’Austria, a Venezia finirono nelle prigioni politiche dei Piombi  Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, molte città del Veneto venivano colpite da una mirata repressione poliziesca contro i sospettati di trame “‘settarie”.

A Padova l’8 febbraio successivo, durante uno dei primi moti di ribellione, una manifestazione di studenti dell’Università fu dispersa dall’esercito e nel carcere della città patavina fu rinchiuso il vicentino Guglielmo Stefani direttore de “Il caffè Pedrocchi”, giornale liberale molto diffuso tra gli stessi studenti. Ancora a Vicenza il giudice Pietro Cassetti consigliere dell’ I.R. Tribunale interrogava Valentino Pasini e Jacopo Cabianca legati da lunghe frequentazioni con Manin e Tommaseo.

La nuova legge, che prevedeva la censura preventiva, regolava “la procedura abbreviata nei processi per perturbata pubblica tranquillità” e sanciva il passaggio dalla giurisdizione del Tribunale Provinciale a quella del Giudizio Statario. Queste disposizioni colpivano anche azioni “di per se innocue come il portare certi colori, o il metterli in vista, il portare certi distintivi o segnali, il cantare o declamare certe canzoni o poesie,  l’affluire ad un luogo di un convegno, il far collette o il raccogliere sottoscrizioni” .

Il precipitare degli avvenimenti nella capitale dell’Impero in seguito alle insurrezioni popolari, le improvvise dimissioni del Metternich e le prime concessioni da parte dell’imperatore Ferdinando che prevedevano il riconoscimento del principio delle nazionalità, ebbe immediate ripercussioni anche nelle provincie venete.

Nella serata del 17 marzo di fronte a improvvise, spontanee manifestazioni popolari il governatore Aloisio Palffy nel tentativo di sedare gli animi decise la scarcerazione di Manin e Tommaseo concedendo il giorno successivo la costituzione della guardia civica,  una delle istanze sempre ricorrenti nelle dinamiche di sommossa e di movimento del ’48. Negli stessi giorni il governatore, nell’estremo tentativo di scongiurare l’insurrezione, ordinava la soppressione della censura.

A Venezia e nelle altre città del Veneto non ci fu il temuto bagno di sangue. Da Milano erano giunte notizie che avevano molto impressionato le autorità austriache, che desistettero dall’intento di affrontare le agitazioni popolari. C’era anche da tenere in considerazione che la guarnigione cittadina veneziana, a parte alcuni reparti di lingua tedesca, era formata da soldati veneti, fanti, presidiari, marinai.

Il 22 marzo il conte Palffy si dimise dalla sue funzioni rimettendole al Generale Ferdinando Zichy, ufficiale ungherese molto legato a Venezia e concordò con la delegazione popolare di Manin e Tommaseo un trattato nel quale “cessa il governo civile e militare sia di terra che di mare che viene rimesso a un Governo Provvisorio che sta per istituirsi.“

Nelle stesse ore in una Padova in piena rivolta il feldmaresciallo Costantino D’Aspre decideva di ritirare nel quadrilatero il comando d’Armata;  di passaggio per Vicenza dall’alloggio nell’albergo Scudo di Francia, nel tentativo di saccheggiare le casse municipali si scontrò con il fermo atteggiamento dei componenti la commissione municipale che chiusero la questione con l’offerta di 14 mila fiorini. Per il Veneto iniziava un esaltante periodo di libertà.

Il 23 Marzo in una piazza S. Marco vestita a festa con bandiere tricolori fu formato il primo Governo Provvisorio della Repubblica Veneta che come primo atto, il giorno successivo, emanava un proclama nel quale, oltre ad esprimere gratitudine e riconoscenza al popolo veneziano, nei suoi passaggi più importanti recitava: “Il nome di Repubblica Veneta non può portare ormai seco alcuna idea ambiziosa o municipale.

Le Province, le quali si sono dimostrate tanto coraggiosamente unanimi alla comune dignità; le Province che a questa forma di governo aderiscono, faranno con noi una sola famiglia, senza veruna disparità di vantaggi o di diritti poiché uguali a tutti saranno i doveri e incominceranno dall’ inviare in giusta proporzione i loro Deputati, ciascuna a formare il comune Statuto”.

Alla Repubblica Veneta aderirono il Governo Provvisorio di Treviso il 24 marzo, di Padova il 25, di Vicenza e Bassano il 26 e successivamente di  Rovigo, Belluno e di Udine con il Friuli.

La nuova Repubblica provvide immediatamente a far stampare le intestazioni  per i carteggi e gli atti e ad inviarle alle autorità di tutte le città venete e lombarde. Il leone alato di S. Marco sostituiva l’emblema dell’aquila bicipite austriaca e un decreto del 27 marzo istituiva la bandiera della Repubblica Veneta che si componeva del tricolore italiano, unitamente al leone marciano collocato in campo bianco in alto a sinistra. Intanto Venezia e le altre città del Veneto cominciavano ad organizzare la loro difesa.

Oltre che nei capoluoghi, anche in molte altre cittadine del Veneto si formarono i Comitati Provvisori o Deputazioni Comunali e in molti casi veniva istituita la Guardia Civica. Il Governo Provvisorio Veneto aveva nel frattempo autorizzato i Comuni a sostenere le spese occorrenti al mantenimento ed alloggiamento delle truppe di permanenza o di passaggio nelle rispettive località oppure a prendere denaro a mutuo da altri Comuni o da privati.

Numerosi avvisi emanati da vari comuni dimostrano la disponibilità  dei cittadini interessati a provvedere al mantenimento della Guardia Civica e dei volontari che stavano accorrendo da ogni parte d’Italia.

Ma la controffensiva austriaca nel maggio ’48 cominciava a farsi sempre più insistente soprattutto attorno alla città di Treviso dopo la repentina caduta di Belluno e Udine. Invano le legioni del generale pontificio Andrea Ferrari avevano cercato nella battaglia di Cornuda di fermare le milizie del generale Nugent che aveva occupato la città di Montebelluna.

Quando gli austriaci avevano ormai posto sotto stretto assedio Treviso arrivarono le notizie della capitolazione di Vicenza il 10 giugno e un dispaccio del Governo di Venezia consigliava di abbandonare la città e portare le truppe in salvo nella città lagunare.
Tra i tanti Comitati Provvisori sorti nella primavera del ’48 si distinse, per organizzazione ed impegno, quello della città di Bassano.

La legione di volontari bassanesi era riuscita a fermare a Fastro le milizie austriache che avevano tentato di aprirsi un varco nella Valsugana. Ma nonostante la caparbia resistenza di questi giovani volontari la cittadina di Bassano fu rioccupata il 5 giugno del 1848, e  fu dichiarato sciolto il Comitato Provvisorio.  Quasi tutti i crociati bassanesi accorsero alla difesa di Vicenza nella convinzione di continuare la loro causa di libertà.

Anche la città di Padova, organizzò fin da subito una guardia civica e un Comitato d’ordine pubblico. Era il 24 marzo quando il Governo Provvisorio presieduto da Andrea Meneghini, liberato dalla carceri veneziane con Manin e Tommaseo, decideva in prima seduta di aderire alla Repubblica Veneta e di offrire sostegno ai crociati padovani, ai volontari pontifici e napoletani e a un battaglione lombardo, arrivati in città per organizzarne la difesa con la nuova Legione Euganea. La notizia della caduta di Vicenza fece una grande impressione a Padova e la richiesta al generale Pepe di soccorso e munizioni da Venezia venne ritenuta strategicamente inopportuna. L’esercito del secondo Corpo d’Armata entrò nella notte del 14 giugno 1848 ristabilendo il dominio austriaco.

La partecipazione di molti volontari alla difesa delle città del Veneto divenne una costante durante i mesi della primavera del Quarantotto. Una sorta di mobilitazione democratica e repubblicana nella quale schiere di giovani patrioti, l‘espressione forse più autentica e genuina del sentimento di ribellione verso l’Austria, correvano da una città all’altra in un moto di reciproco riconoscimento e di fratellanza militare. Bisogna comunque ricordare che molti volontari veneti, in particolar modo quelli inquadrati nelle Legioni dei Crociati, erano certamente spinti da ragioni ideali ma in tanti casi attratti soprattutto dalle alte paghe: 2 lire al giorno invece dei 50 centesimi mediamente percepiti da un bracciante agricolo.

Il pagamento, che era a carico dei governi provvisori, addirittura creò a Vicenza problemi alle autorità cittadine quando ai primi di aprile si venivano concentrando oltre 2.000 volontari.  In città oltre ai Crociati Vicentini erano presenti reparti della Crociata Bassanese con 238 uomini, del Corpo Franco di Schio con circa 200 uomini comandati dai fratelli Fusinato, delle Legioni dei Crociati Padovani con 700 uomini e Trevisani con 560 volontari.

Un Avviso del presidente Bonollo ricordava ai vicentini l’obbligo di pagare tasse e dazio ricordando non essere “buon cittadino chi non soddisfa le imposte nelle attuali circostanze, le quali domandano abbondantissimi redditi, essendo ingenti le spese da sostenersi”,   e un decreto di Manin del 5 aprile 1848 prevedeva addirittura una serie di agevolazioni per gli studenti che decidevano di imbracciare le armi. Proprio però questi corpi volontari diventavano in qualche modo protagonisti in negativo delle vicende che seguirono al loro sfortunato tentativo di contrastare gli austriaci a Sorio e Montebello l’8 aprile 1848. Evento che, se da un punto di vista militare ebbe scarsa importanza, risultò invece gravido di conseguenze sul piano politico.

Oltre allo sgomento provocato dalla maldestra condotta dell’operazione per la quale Manin firmava il decreto del Governo Provvisorio della Repubblica Veneta che intimava al delegato di Vicenza e al podestà della città l’immediata destituzione, l’episodio andava a rafforzare le convinzioni di Radetzky che dalle fortezze del Quadrilatero comprese che non avrebbe avuto molto da temere dalle truppe volontarie venete.

E anche se il generale Girolamo Ulloa, che era uno dei capi militari della Repubblica Veneta, preferì liquidare con scarse parole il poco brillante episodio di Sorio, che pure era costato la vita a moltissimi giovani che avevano creduto in un rapido e completo riscatto dell’indipendenza,  da parte italiana quella giornata mise chiaramente in evidenza i limiti delle possibilità dei veneziani sia in uomini che in mezzi. Maturò allora la scelta di rivolgersi con decisione ai piemontesi offrendo a Carlo Alberto la prospettiva dell’annessione delle Provincie Venete al Regno di Sardegna.

Già il 13 aprile una deputazione vicentina con una petizione sottoscritta da 374 cittadini si recava al campo del re sabaudo per chiedere “soccorso e protezione” e per esprimere al sovrano il desiderio che Veneto e Lombardia si unissero in un “solo Stato con i nostri fratelli da Voi retti”.
A Vicenza, uomo forte del Comitato Dipartimentale che reggeva le sorti della Provincia era quel Sebastiano Tecchio, massimo esponente del partito filo-piemontese, che cominciava a comprendere con i limiti dell’azione veneziana l’importanza di superare la fase veneta dell’insurrezione per passare alla fase nazionale, che avrebbe dovuto portare alla creazione di un grande Stato.

L’attività politica sua e del comitato vicentino segneranno un progressivo distacco da Venezia, culminato con la proposta di dar vita ad un’assemblea costituente lombardo-veneta e di indire con l’accordo delle città di terraferma il plebiscito di annessione. Le forze politiche espresse dalle città di terraferma, di per sé conservatrici e ora intimorite dalla volontà austriaca di rioccupare il territorio veneto, manifestarono immediatamente il loro pieno appoggio alla proposta.

Le formalità vennero stabilite da un apposito decreto  che a Venezia Manin e Tommaseo, contrari all’idea fusionistica e consapevoli del pericolo che correva la repubblica di rimanere priva del retroterra su cui contare per la difesa e il suo finanziamento, si affrettarono a dichiarare non valido.

Per questo, quando il primo giugno vennero resi pubblici i risultati del voto vicentino (36.328 voti a favore dell’annessione immediata al Regno di Sardegna) mancavano alcuni distretti, come quello di Asiago, fedeli alle direttive emanate da Venezia in contrasto con il decreto annessionista. L’annessione formale delle provincie di Vicenza, Padova, Treviso e Rovigo al Regno di Sardegna venne resa pubblica dalla Gazzetta Ufficiale del regno sardo in data 13 luglio 1848 “visto il risultato della votazione universale”  in una “dimensione in qualche modo irreale, poiché le condizioni materiali indispensabili perché essa potesse avere un senso erano nel frattempo venute meno, o stavano per esserlo”.

Dopo la battaglia di Vicenza del 10 giugno e alla vigilia della battaglia di Custoza che segnerà le sorti della prima guerra d’indipendenza, quasi tutto il Veneto infatti era stato rioccupato dagli austriaci, con le sole esclusioni di Osoppo che resisterà fino al 13 ottobre e di Venezia la cui indipendenza si sarebbe protratta invece in condizioni sempre più difficili ancora per molti mesi.

Stando al racconto di Francesco Molon autore di un libro di ricordi sulla campagna del ’48 nel Veneto, con la capitolazione di Vicenza, Treviso, Padova e delle guarnigioni del rodigino: “deposero le armi ben ventiduemilacinquecento uomini regolari e volontari”
Con la caduta di Vicenza e delle altre città molti volontari veneti che non avevano accettato la resa accorsero alla difesa di Venezia. La rivoluzione in Veneto della primavera del 1848 si concluse con un costo estremamente elevato sul piano militare, su quello umano e quello economico.

Furono drammatiche infatti, oltre alla mortificazione della sconfitta, il dramma dell’occupazione militare, la rigida applicazione della dura legislazione repressiva e le requisizioni di un esercito che tornava prepotentemente a vivere a spese delle provincie occupate con imposizioni di tassazione straordinaria.

Dopo la capitolazione di Venezia dell’agosto del ’49, in tutte le provincie venete l’attività dei giudizi statari militari austriaci cominciarono a dare prova della loro sollecitudine a comminare pene durissime. Iniziava infatti il periodo più aspro nella storia dei rapporti tra Vienna e il Veneto.

Il processo statario, una sorta di Tribunale Militare Speciale, aveva un ambito giurisdizionale molto ampio e soprattutto prevedeva per i soggetti sottoposti alla sua autorità, si trattasse di civili o di militari, l’espressa condizione che tutta la procedura unitamente all’esecuzione doveva essere ultimata entro il termine delle 24 ore, decorribili dal momento in cui il detenuto veniva tradotto nelle carceri.

In Veneto la Commissione Militare aveva sede ad Este, tutta la procedura veniva condotta in lingua tedesca e “letta la sentenza, i fucilandi carichi di ferro, fra bande d’armati, fra il frastuono dei tamburi e la retroguardia dei sarcofaghi s’avviano al supplizio: la scarica dei moschetti si ripeteva di paese in paese…..”.

La condanna del Giudizio Statario veniva in genere eseguita mediante fucilazione. Eccezioni furono le impiccagioni di Mantova e Belfiore. Nei primi anni successivi alla stagione rivoluzionaria del 1848-’49, in Veneto furono pronunciate 1144 sentenze di morte di cui 409 eseguite e 735 commutate in lunga prigionia.

A Vicenza e nel Veneto  la breve stagione quarantottesca, che l’improvviso venir meno del controllo delle autorità costituite aveva lasciato affiorare alla superficie della vita civile e politica della regione, aveva manifestato nelle piazze l’inattesa presenza, ricca di calorosi eroismi e di melanconici insuccessi, di quei ceti popolari che cominciavano a porsi con decisione il problema dei propri destini.