Grande panorama di Venezia in 7 fogli

VENEZIA: LA FORMA E L’IMMAGINE
di Giandomenico Romanelli

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Poche città certamente dispongono di un repertorio cartografico come quello veneziano. Per converso, proporzionalmente pochi di tali repertori presentano medesimo grado di fissità e formalizzazione nel corso dei secoli: a Ottocento ben inoltrato possiamo ritrovare tipi cartografici che ripropongono – scarse varianti aggiunte – quelli elaborati nel Cinquecento.

Grande panorama di Venezia, tiratura limitata a 600 esemplari con numeri arabi, disegnato da Guido Albanello 

Grande panorama di Venezia, siglato P.A., in serie limitata,  disegnato da Guido Albanello e acqurellato a mano da artisti contemporanei 

 

Ci sono, ovviamente, spiegazioni all’una e all’altra di queste constatazioni: la sostanziale continuità storica della Repubblica e delle sue istituzioni politiche, civili e religiose; la stessa mancata espansione e limitata evoluzione fìsica della città (costretta dall’acqua e priva d’una periferia; esente dalla necessità dei tradizionali sistemi di fortificazioni in continua e centripeta espansione così da generare le varie cerchie di mura e le successive urbanizzazioni che son proprie delle città di terra-ferma; i “guasti”; i provvisori agglomerati edilizi, e così via); la precocemente acquisita e maturata configurazione me­tro­­politana, già definita assai prima della diffusione delle tecniche e degli usi cartografici; una pressante esigenza pubblicitaria e di illustrazione delle originalità di Venezia, “mostro” urbano senza precedenti e, insieme, come s’è spesso affermato, utopia realizzata, luogo fisico, esteso momento storico e contingenza morale “ideale” in cui convergono la stabilità e l’efficacia di governo, la qualità delle forme e delle espressioni d’arte, il dominio perfetto degli elementi.

La cartografìa veneziana ben s’inserisce in un più generale processo di costruzione dell’immagine della città e ciò si evidenzia nella insistenza di taluni caratteri ricorrenti. Prima di ogni altro, l’uso di un unico punto di veduta, quello che – pur con diversa altezza sull’orizzonte e con maggiore o minore lontananza dalla riva – consente di ritrarre il solo margine meridionale della città, cioè la cortina monumentale dell’area marciana sul bacino di S. Marco.

In particolare, è giusto sottolineare come l’intervento sansoviniano del medio Cinquecento sia immediatamente re­cepito come l’asse portante dell’intera operazione di costruzione della forma fìsica perfetta di Venezia.

Il corrispettivo a ciò è l’abbandono pressoché assoluto della fronte nord nella sua realtà architettonica, monumentale e ambientale non meno che nella sua documentazione cartografica.

Scelta per altro già ben presente prima della riscrittura classicista sansoviniana del volto della città: basti valutare la chiusura ad angolo di un sito quale i Ss. Giovanni e Paolo (così come di altre analoghe situazioni distribuite lungo il margine settentrionale di Venezia): in esso la disposizione perpendicolare di chiesa e scuola si risolve in un dialogo urbano tutto rivolto a sud (e rafforzato dal perno ottico e scenografico del monumento a Colleoni), affatto disinteressato alla vicinissima spazialità lagunare e alla grande banchina delle Fondamenta.

Questo rifiuto di un affaccio a nord ha indubbiamente ragioni di ordine topografico e climatico; altre di natura funzionale, dato che il porto della città era costituito dal bacino di S. Marco; altre ancora connesse al più tardo e più lento processo di solidificazione e urbanizzazione di quelle sponde.

Al momento di rovesciare il fronte-mare e di privilegiare quello verso la terraferma – cosa che si verificò con la costruzione del ponte ferroviario e quindi con la fine dell’insularità – ci fu chi sentì l’imbarazzo di un ingresso in città effettuato appunto quasi dal retro: donde le proposte di aggirare tutta la testata occidentale di Venezia e giungere con la rotaia alla Salute o, assai più ragionevolmente, di far sì che la fronte del coevo grande edificio del nuovo Macello a S. Giobbe assumesse i caratteri di dignitoso e architettonico portale d’accesso urbano.

Il disinteresse dell’architettura e  dell’urbanistica trova – salvo sparute eccezioni – puntuale conferma nella cartografìa, che ignora vedute prospettiche e panorami di Venezia ripresi da nord. Punti di osservazione non sarebbero certo mancati, a cominciare dalle due piccole isole di S. Cristoforo e S. Michele i cui campanili nulla avevano da invidiare, sotto questo profilo, a quello di S. Giorgio.

C’era un altro elemento, tuttavia, a deporre contro rappresentazioni della città da nord, ed esso ci è rivelato da un’immagine in tal senso davvero eloquente: si tratta dell’unica e assai sommaria veduta prospettica di Venezia da terra ed è posta ad illustrare, nel 1624, il canto X del “poema eroico” di Giulio Strozzi La Venezia edificata.

La città vi appare così come si presumeva potessero averla veduta Attila e i suoi guerrieri (che compaiono, in realtà, in primo piano nell’incisione) una volta affacciatasi alle lagune sulla strada da Aquileia a Padova, nel corso della loro calata a Roma.

Nessun’altra prospettiva scopre la città altrettanto indifesa e inerme, nonostante l’attenzione dell’incisore a munirne le sponde di armati; nessun’altra rende così efficacemente il punto debole della Dominante.

In tutto ciò si mescola la rivisitazione della leggenda delle origini e il ricordo della minaccia imperiale del 1513 quando, narra Sanudo, dalle Fondamenta Nuove si potevano scorgere i fuochi degli incendi “si chè tutta Mestre bruciava, e si vedeva fumi grandissimi”: ciò ha ancora un’eco nell’incisione della Venezia edificata, né più l’effetto sgradevole sarà tentato da altri.

Così come si è fatto per quella di altre città, anche per la produzione cartografica veneziana è stata operata una suddivisione tipologica sostanzialmente da tutti ac­colta: prospettive, paesaggi, piante, vedute.

Entro questa serie di materiali e pur all’interno delle partizioni per tipi e delle dovute distinzioni filologiche è naturale che emergano norme e varianti. Le une e le altre, esorbitando anche dagli stessi propositi degli autori, sono venute tracciando, assai più che altri linguaggi e altri approcci alla conoscenza della città, la forma e l’immagine di Venezia, tanto da divenire stratificazione consolidata culta e popolare oramai definitivamente acquisita.

Già si è detto della persistenza del punto di veduta: preannunciato dai panorami alla Braidenbach, questa scelta trionfa nel capolavoro della cartografìa veneziana, la Venetie MD attribuita in modo convincente senza più dubbi a Jacopo de’ Barbari. Anzi, questo lavoro e le sue caratteristiche divengono il modello e il termine di riferimento obbligato per più di tre secoli di produzione cartografica a stampa, di redazioni pittoriche, di vignette e illustrazioni in numero rilevantissimo.

Quanto alla docu­menta­zione urbanistica ed architettonico-edilizia che essa fornisce basti dire che vi si continua ad attingere a piene mani come in un pozzo senza fondo.

La ricchezza e polivalenza di quest’opera impediscono di imporle delle “riduzioni” interpretative: così che da un lato ancora non è stato del tutto risolto il problema delle tecniche secondo le quali essa è stata costruita e composta; e, dall’altro lato, sono risultati vani i pur legittimi tentativi sino ad ora intrapresi per ricomporre nei termini di una cartografìa normalizzata la massa di dati in essa contenuti relativi alla scrittura monumentale e minore della città allo schiudersi del XVI secolo.

Anzi: proprio in questa resistenza che la Venetie MD oppone all’indagine sta forse il suo – ma indiretto – maggiore contributo alla definizione della immagine della città che ne risulta dedalica, densa ma articolatissima, omogenea nel complesso ma massimamente discontinua dei frammenti; compatta ma individualizzata in tutte le sue parti – anche le più minute – ricca di arredo e di invenzioni e tuttavia seriale.

L’accentuazione del proteico e quella del multiforme, del monumentale e del celebrativo, della stravagante originalità e della natura dedalica e labirintica rimangono e convivono fino all’insorgente bisogno d’ordine e di chiarezza, alla scelta di una differente accentuazione, anche grafica, di quanto è essenziale e dell’accessorio.

Il che si avrà per la prima volta, e compiutamente, col Disegno di Alessandro Badoer del 1627 e poi, con maggior qualità e ricchezza, nella Pianta iconografica pubblicata dal Coronelli nel 1697. Questi lavori in sostanza si propongono di evidenziare la rete dei canali interni rispetto all’edificato e, comunque, a quanto emerge dall’acqua. Ben prima di allora però
e con analoghe intenzioni, Paolino da Venezia doveva compilare il più vetusto
monumento cartografico veneziano (riscoperto e pubblicato dal Temanza nel 1781): la straordinaria pianta della marciana Chronologia Magna (1346) nella quale, oltre ai canali interni e a una significativa porzione di laguna, compaiono i collegamenti delle vie d’acqua urbane con quelle esterne di grande comunicazione e una sufficiente definizione dei confinia e dei relativi tituli, cioè parrocchie e chiese della città. Ma, al di là della stessa enorme importanza della planimetria di fra’ Paolino, va detto che forse non meno rilevante ne fu l’edizione a stampa trattane dal Temanza nell’imprimere alla vicenda della iconografìa veneziana una cadenza scientifica vuoi nell’ordine del recupero filologico di un caposaldo della paleografìa cartografica, che in quello dei fondamenti inoppugnabili della storiografìa cittadina sia, infine, circa la verifica e il tenore di un dibattito sulla forma urbis già presente a metà del XIV secolo se, come pare – e lucidamente proposto dal Temanza – l’opera di fra’ Paolino vuole essere un’accurata ricostruzione della Venezia del secolo XII.

Quel che appare forse più straordinario è il fatto che la prima rappresentazione cartografica della città rivela un grado di compiutezza formale e, nell’autore, una coscienza così esatta della reale condizione planimetrica di Venezia nei vari rapporti dimensionali e angolari che non sarà agevole ritrovare l’equivalente nemmeno in opere assai più tarde e condotte con strumentazioni culturali e tecniche, sulla carta almeno, molto più evolute. Non meno sorprendente è, infine, il grado di asciuttezza e oggettività che il nostro trecentesco autore mostra di possedere.

Le rappresentazioni care all’imagerie gotica cortese destinate a decantarsi in opere capitali per la costruzione e diffusione di un’immagine mentale, insieme mitica e romantica, della città – quali la celeberrima veduta di S. Marco alla Bodleian Library di Oxford o, più tardi, le vedute inserite negli “itinerari” alla Terra Santa – risultano assolutamente estranee all’illustrazione di fra’ Paolino o, addirittura, la vera e propria negazione di esse.

Solo Badoer quindi e, poi, Coronelli, riacquisiscono con buona padronanza illustrativa il senso di una struttura staccata dall’immagine ma lucidamente presente al solo fra’ Paolino (e, con diversa attitudine però, al Sabbadino nel corso del ’500).

La cosa appare tanto più rilevante in quanto buona parte dell’attività latamente cartografica fin dalla sua origine e certo anche ben avanti nell’Ottocento appare proporsi l’obiettivo di mettere a fuoco un’immagine della città piuttosto che di indagare la sua interna costruzione o la sua forma esteriore; cioè, in termini semplificati, vengono servite ragioni d’ordine ideologico prima e preferibilmente di altre.

Su lunghezza d’onda non dissimile nella sostanza si pongono vedute e cartografie nelle quali prevalgono ragioni ancora d’ordine ideale e ideologico; quindi morali, epiche ed eroiche, ad integrare e ribadire la vitalità del genere encomiastico nella letteratura e nella saggistica su Venezia nel corso dei secoli.

Non è forse per la maggioranza dei casi possibile parlare tout-court di un utilizzo ideologico della cartografia – che qui si mescola per la gran parte con una non particolarmente significativa produzione vedutistico decorativa – ma è certo legittimo e opportuno sottolineare il contributo che tale lunga pratica di rami e carte fornisce da un lato a predisporre il terreno per l’avvento e le fortune sia del vedutismo (pittorico e derivati) che della cartografia in senso proprio; e, dall’altro lato, a diffondere e rendere familiari nell’intera Europa i canoni non meno che i semplificati o idealizzati caratteri ricorrenti della forma urbis veneziana.

Vi è infine, né può certo essere sottovalutato, il contributo che tutto ciò fornisce alla registrazione del continuo lavorio di modifica di oggetti architettonici non meno che di settori più o meno vasti di città: dal problema della cuspide del campanile di S. Marco che segna e caratterizza i tre diversi stati del de’ Barbari, all’inserimento di oggetti-segni quali la nuova dogana del Benoni o la chiesa della Salute; dall’urbanizzazione dell’area di Cannaregio nord fino ai varchi aperti dagli interventi napoleonici, evoluzione della città e vita della cartografia si intrecciano e illuminano vicendevolmente le rispettive vicende.

In più va rilevato che la carta non si limita, molte volte, ad essere registrazione dell’accaduto, per farsi suggerimento per nuovi interventi, motivo di riflessione e stimolo per progetti e per le stesse opzioni in campo urbanistico: sotto questo profilo, lavori come quelli dell’Ughi, del Perissini, dei Combatti, del Vendrasco vanno assai al di là dal semplice fornire un supporto grafico, essi sono invece il vero e proprio oggetto del contendere e del progettare.

E lo sono più pienamente e a maggior ragione allorché si arriva a fruirne in serie storica. Così che la pianta fa da ponte tra la registrazione dello status e l’offerta di spazi, pretesti, provocazioni per il progetto e l’intervento.

Da un altro punto di vista essa, specie allorché avanza il processo di fissazione e astrazione dei simboli grafici, costituisce una massiccia opera di classificazione e catalogazione del reale così da necessitare di scale più piccole fino ad abbandonare l’orizzonte della globalità per ripiegare sul frammento privo di confini naturali, dove è la dimensione del foglio a dettare la forma e i limiti della realtà indagata e riprodotta: si pensi alle tavole del catasto urbano – napoleonico e successivi – alla loro secchezza di segno, all’assenza di qualsivoglia notazione prospettica, dense di numerazioni e graffe, l’unico spessore previsto e praticato (ma quanto, a suo modo, ridondante di dati e di cose!) essendo quello fornito dai registri dei sommarioni.

Accennando poi alla laguna, non è certo possibile non ricordare almeno la prima restituzione cartografica sufficientemente chiara, cosciente e piena di quest’entità naturale e antropica rapportata al più vasto contesto territoriale, contenuta nell’Isolario di Benedetto Bordone (1528). Tutto l’incerto margine di terraferma da sopra Marghera fin oltre Lizza Fusina e il sistema dei lidi, da Tre Porti a Chioggia, vi compaiono con gradevole espediente grafico ad abbracciare la trion­­fante VINEGIA, pienamente ed esattamente ripartita da una rosa di venti che risulta esser generata dalla punta estrema della Dogana, in faccia a San Marco, cuore e centro del disegno e, prima ancora, dell’intero sistema.

Così come questo eloquentissimo quadrante incardina la città al suo contesto,
– certo oltre la semplice indicazione dei punti cardinali – cioè la rapporta a un più vasto spazio (ma anche a un tempo, se vi sappiamo scorgere l’allusione agli oroscopi di fondazione); altrettanto in altre figurazioni il nucleo urbano appare galleggiare e vagare da un punto all’altro del grande bacino privo di consistenti motivazioni ad essere ancorato in uno dei siti dello stesso.

Ma è, d’altra parte, assai chiara la dipendenza – figurativamente parlando – del contesto lagunare dalla città vera e propria, dipendenza che si esprime nella de­formazione esasperata dei rapporti dimensionali oltre che dall’impaginazione globale delle scene: un universo orbicolare nel quale i margini di terraferma e litoranei della laguna si incurvano a contenere come perla preziosa la grande madre Venezia.

Cornice architettonica non meno complessa e monumentale aveva anche la veduta prospettica contenuta nel volume degli Habiti di Giacomo Franco (1610).

La sua maggiore originalità consiste però piuttosto nel tentativo – solo parzialmente riuscito – di trascrivere la veduta come at­traverso uno specchio a lente circolare: gusto anamorfico di derivazione nordica, desiderio di dissolvere forse le deformazioni della restituzione in piano e intenti di marcata centralità concorrono a costruire una delle vedute più singolari pervenuteci (originalità ribadita dalla stessa inquadratura da sud-est).

Grande fortuna hanno nel corso di tutto il ’600 vedute e piante prospettiche di
fattura nordica seppure complessivamente assai ripetitive. Spicca per qualità e quale capostipite di un’intera famiglia cartografica la Venezia inserita nel 1635 da Matteo Merian nel suo Theatrum Europaeum edito a Francoforte: il segno è assai netto, il dettaglio preciso, il controllo dell’intera raffigurazione nei suoi rapporti proporzionali di buona riuscita.

Le novità maggiori dell’intera serie cartografica dovremo però cercarle nel XVIII secolo: a distanza di quindici anni l’una dall’altra, la magistrale ricomposizione esatta e scientifica della forma astratta di Venezia nella pianta zenitale dell’Ughi (1729) e il dissolvimento di quella forma nella corrosiva veduta di Giorgio Fossati (1743). La grande pianta di Venezia di Ludovico Ughi è coeva delle prime affermazioni di una gloriosa stagione della pittura veneziana, quella del vedutismo canalettiano.

Mentre le intenzioni del pittore mirano ad una rappresentazione compiutamente e scientificamente pro­spet­tica del paesaggio urbano di Venezia, parallelamente Ughi si spoglia di residui scenografici, di pretesa tridimensionale, per giungere alla redazione della “geometrica Pianta” della città “per la prima volta delineata con le più caute misure, e graduazione degli Angoli”, come puntigliosamente si sottolinea nella dedica dell’iscrizione.

La pianta dell’Ughi, al di là dei legittimi vanti dell’autore, è in effetti un documento storico di importanza rilevantissima circa l’architettura e l’urbanistica veneziane.

I vari e differenti livelli di lettura che essa consente restituiscono non solo un’immagine composita della forma cittadina, bensì una assai più significativa rassegna di realtà e anche di problemi, di condizioni materiali e di storia delle idee.

Il grado di astrazione compiuto da L. Ughi rispetto alla tradizione cartografica locale va senza dubbio con forza sottolineato: nella serialità di due secoli e mezzo di prodotti, le novità introdotte sono fondamentali.

E a ragione possiamo quindi collegare la pianta al più generale moto di riflessione e ripensamento sulla città e sullo stato veneziano in atto in questo primo scorcio di secolo.

Ma certo gran parte del discorso che è possibile ricavare dalla pianta dell’Ughi va a fondarsi su ciò che essa dice in concreto, con segni, tratteggi e campiture luminosamente esposti e dichiarati all’osservatore.

Un prodotto cartografico-vedutistico come la prospettiva a volo d’uccello di Giorgio Fossati (1743) si presenta senza dubbio con i caratteri della più originale atipicità entro il sistema iconografico della e sulla Dominante. Tanto che, pur acquisiti tutti gli elementi di tradizionale contrassegno di quel mondo, il risultato denuncia alla fine e per converso una singolare perdita di senso.

Né la classica figura a pesce delle piante, né i profili oblunghi delle vedute della fronte marciana sono presenti in questa nuova prospettiva che mette in forma una realtà urbana compatta ma dal profilo indefinito, nella quale scompaiono i canali interni e vien scardinata la gerarchia espressiva e illustrativa acquisita nel corso dei secoli.

Paradossalmente sarebbe forse possibile dire che nel momento in cui rappresenta la città, il Fossati la neghi almeno nella sua definitezza e identificabilità nella forma: lo stesso declinante destino della Repubblica e della sua capitale insinua in questa veduta la sensazione di una perdita d’identità e, al contempo, dello smarrimento degli usuali ancoraggi illustrativi della cartografia e del vedutismo tradizionali, senza tuttavia ritrovare, come era invece avvenuto per l’Ughi e come certamente avveniva per il Canaletto e la sua scuola, nella oggettiva chiarezza espositiva proprie di un metodo e di una tecnica di aggiornata e moderna concezione, occasione e motivo per superare brillantemente, non meno che con fede illuministica, le ricorrenti tentazioni di crisi.

A meno di quindici anni dalla pianta dell’Ughi, l’elaborato di Giorgio Fossati fornisce una lettura in controluce della medesima realtà, capovolgendone ottica e significato, suggerendone una decifrazione decisamente anti-illuministica.

(Questa del Fossati è l’ultima grande riflessione condotta graficamente sulla forma di Venezia; tra non molti anni compariranno l’edizione critica di Tommaso Temanza della pianta di fra’ Paolino e la veduta fantastica della Venezia delle origini proposta nell’incisione di Ignazio Colombo mentre continuano a circolare tutti i generi di vedute, fino alle cartoline illustrate di Giacomo Guardi, affermando da un lato il prevalere d’interesse per il confronto con la storia e la nascita di una storiografia urbana, rispetto all’elaborazione sul presente; e, dall’altro lato, la rinuncia a ogni giudizio in favore di una rappresentazione di maniera, bozzettistica e spesso scontata, destinata a un pubblico occasionale, di visitatori e turisti).

Dopo il lavoro del Fossati e per alcuni decenni lo sforzo di comprensione della composita unitarietà di un sistema quale risultava essere Venezia, viene abbandonato a favore di una maggiore frammentarietà di vari specialismi mentre le indagini si amplieranno piuttosto al tema lagunare oppure si rinnoveranno radicalmente nell’ambito dei rilevamenti catastali poco oltre la fine della Repubblica.

Alle tecniche e alle scritture di tali rilevamenti non rimangono insensibili i cartografi nel nuovo secolo: planimetrie esatte e vuote, scritture tendenti all’anonimato catastale o alla oggettività tipografica; scomposizione della città in settori e in tavole: mentre nel 1821 Giambattista Paganuzzi realizza l’imponente lavoro delle Trenta Parrocchie, altri accolgono invece le suggestioni del mercato turistico; vedutine stereotipate affollano bordi e campiture di piante spesso di buona qualità (Moretti, Garlato); ritorna la veduta a volo d’uccello in insoliti tagli e interpretazioni (Rouargue, Moro, Rota, Taviani), muta, in sostanza, il mercato proprio di tale complesso di prodotti.

Su un livello ancora diverso – e decisamente superiore – appaiono collocarsi lavori di Bernardo e Gaetano Combatti e di Marco Perissini.

La pianta di Marco Perissini (inc. Giuseppe Cattaneo) compare a più riprese a partire dal 1841: assai precisa e accurata nell’esecuzione viene ripetutamente aggiornata a seconda delle novità dell’urbanistica cittadina, con attenzione particolare agli spazi del terminale ferroviario; ricchi anche i rimandi toponomastici.

Bernardo e Gaetano Combatti rilevarono e disegnarono accuratamente a scala 1:3000 la situazione di Venezia nel 1846 aggiornandola a tutto dicembre 1855; incisore ne fu G.B. Garlato, mentre ebbe a curare la parte redazionale del collegato volume di notizie e descrizioni della città il poligrafo Francesco Berlan.

Pensata e realizzata per onorare gli scienziati italiani convenuti a Venezia nel ’47 in occasione del congresso loro riservato, la “nuova panoramica” può considerarsi il capolavoro della cartografia veneziana di questo secolo.

L’impaginazione è molto ariosa e arriva a comprendere, a nord, parte dell’isola di Murano; qui inoltre e sugli altri lati è possibile percepire il dispiegarsi del sistema dei canali, delle secche, delle barene che circondano, nella laguna, la città vera e propria.

Di eccezionale precisione è la trattazione di tutti gli edifici e i complessi monumentali le cui planimetrie interne ed esterne costituiscono ancor oggi un bagaglio di informazioni preziosissimo.

Grandissima attenzione è riservata dai Combatti all’area della Stazione ferroviaria come al ponte translagunare, descritto in dettaglio e arricchito di una puntuale notazione didascalica. Riportate con grande fedeltà sono le alterazioni al tessuto stradale pedonale e acqueo, e così le mo­dificazioni, pur interne, di episodi monumentali.

Anche l’Arsenale, grazie a speciale e diretta concessione dell’arciduca Federico, poté essere rilevato e riprodotto con esatto disegno “in modo da scorgere la sua interna costruzione architettonica (…) tutti gli Uffici, tutte le Officine, e vi si conta esattamente il numero dei cantieri, persino le colonne e le pilastrate”.

La pianta dei Combatti è redatta con una minuziosità diligente di singolare rigore; ma essa è al contempo uno studio topografico di grande forza creativa e di sostenuta programmaticità: con buone ragioni pensiamo possa essere definita uno dei maggiori “monumenti” prodotti in Venezia dall’età asburgica: di quell’età, appunto, essa incarna tutti gli aspetti di più pregevole natura: la rispettosa conoscenza del dato storico, la volontà rigorosa d’ordine e di chiarezza; la evidenziazione inequivoca dei rapporti tra i luoghi e le corrispondenti funzioni, e viceversa; la mentalità catalogatrice minuta e vigile, costantemente protesa al funzionale ag­gior­namento delle notizie.

La rilevantissima importanza documentaria della pianta dei Combatti è tale perché unisce insieme informazioni ag­giorna­tissime e sempre esatte su particolari interventi in città (si controlli tutto l’andamento dei lavori di interramento di rii oppure l’altro della costruzione di nuovi ponti, ma, soprattutto, si studino le aree e i manufatti legati alla realizzazione della linea ferroviaria), restituzioni grafiche su condizioni pure storicamente acquisite ma esposte con nuova lucidità, precisione ed eleganza di segno e, infine, notizie su situazioni caduche qui fortunatamente fissate: margini sull’acqua e canali, giardini e orti, approdi e banchine e così via.

La concezione della città che sta a monte del lavoro dei Combatti è quella di un organismo vitale, in continuo rinnovamento e aggiornamento, nel quale, attorno a fuochi storico-monumentali evidenziati in tutta la loro singolarità e rilevanza, ruota un tessuto edilizio composito, articolato, mobile e che si giudica capace di rispondere alla necessità dei tempi.

Infine: rimarchevole risulta il lavoro di catalogazione del “monumentale” rispetto al rimanente dell’organismo cittadino, cioè, in sostanza, il giudizio di valore espresso dagli autori attraverso il diverso tratteggio e l’ispessimento del segno.

Dopo il capolavoro dei Combatti non è agevole trovare prodotti in grado di riprodurne il senso e il generale risultato: la messe cartografica si sdoppia in pratica tra tavole di carattere tecnico (sollecitate ed esigite dall’attività pianificatoria e progettuale degli organismi cittadini) e map­pe a destinazione esplicitamente turistica, inserite spesso in guide e illustrazioni della città da visitare.

Vanno tuttavia ricordate le piante redatte dal geometra A. Vendrasco (nel volume L’ingegneria a Venezia ne compare una prima, policroma, del 1887; con i caratteri di ufficialità le successive, su scala 1:3000), che si distinguono tra le altre per l’esattezza documentaria e una ancora rimarchevole cura grafica; esse furono poi le basi di lavoro per i progetti urbanistici.

Due città, alla fine di questa assai sommaria rassegna cartografica, emergono tra le linee dei disegnatori le misure dei rilevatori e i tratteggi degli incisori: quella irreale, fantastica o tradita, corretta, ridotta o enfatizzata, più immagine patetica o retorica dell’idea di questa città che ritratto di essa.

È la Venezia sognata dei teorici, ideologi o utopisti, quando non anche di quanti pur guardandola non ne scorgevano che sembianze contraffatte e inesistenti; cartografi e vedutisti più sensibili ai richiami di una già costruita immagine interiore che all’evidenza delle cose, delle misure, dei rapporti proporzionali.

Queste incisioni, dalle prime sognanti silografie dei viaggiatori in Terrasanta fino alle più recenti immagini di romantici e decadenti hanno disseminato quel mito e l’hanno reso popolare e amato nel mondo, hanno, in sostanza, conferito carattere di realtà e verità a figure manipolate o sognate, hanno costruito cioè una città non meno spessa, storica e vissuta di quella di pietra.

L’altra Venezia che a noi giunge dalla cartografia è la città dei misuratori, dei geometri e dei catasticatori non meno che degli architetti e degli urbanisti.

L’immagine di essa, pur più aderente e reale di quella mitica, è tuttavia più astratta, meno vera e meno percepibile; assai più attenta a una struttura di cui risulta non agevole cogliere la forma.

È la città del progetto: che lo precede e lo trasforma in segni: ne verifica la compatibilità con un contesto, ovvero fa emergere l’efficacia di una rottura.

Mentre questa cartografia testimonia tutta la capacità di dominio, di controllo su una realtà e la possibilità di modificarne i caratteri, la cartografia ideale, per contro e per sua stessa natura, rinuncia senza rimpianti alla verifica delle corrispondenze tra immagine e cose.

Le recenti e recentissime strumentazioni di investigazione e descrizione satellitare e le rese cartografiche (tradizionali e informatiche) di risoluzione straordinariamente spinta hanno, evidentemente, reso obsolescenti non tanto le tradizionali “scritture” grafiche della cartografia e del vedutismo ma, piuttosto, il legame funzionale che teneva insieme la descrizione e l’interpretazione della forma del territorio e della città.

E tuttavia possiamo registrare un rinnovato interesse per un genere che viene così a collocarsi in un’area semantica nuova, più prossima forse alle interpretazioni ideologico-allegoriche e a quelle ‘morali’ che alla sfera dell’utilità pratica (per altro le stesse mappe stradali e quelle turistiche sono direttamente insidiate da ‘navigatori’ e videoguide).

Certo: le contiguità con la tradizione appaiono evidenti – fino all’incredibile richiamo debarbariano nell’impegnativa veduta a volo d’uccello di Giuseppe Brombin pubblicata da Giovanni Maria Fiore nel 2000! – ma legare il tutto a una sorta di passatismo nostalgico appare, quanto meno, riduttivo.

Vi è, infatti, un “bisogno” di immagine che è più forte e più nobile dello sterile misurarsi con vedutisti e incisori del passato ovvero di indire una sfida insensata e fuori luogo con le tecnologie satellitari.

La prima risposta sta quindi nella riscoperta di una capacità di con-prensione, quasi di abbraccio visivo e simpatetico nei confronti di una realtà frastagliata e frammentata ricondotta faticosamente ma brillantemente ad unità.

Questa sì che è una sfida legittima e sostenibile: l’indagine minuziosa e la resa puntigliosamente esatta; gli equilibri dell’insieme non travolti dalla analiticità del dettaglio, non contrapposti alle interpretazioni di un altro “mezzo”, quello fotografico, ma recuperati nell’equilibrio armonioso di una formidabile ‘strisciata’ dell’anima e della fantasia.

È quanto risalta con evidenza addirittura palmare nella ripresa del genere del ‘panorama’ da parte di Guido Albanello pubblicato con impegno fuor dal comune da chi quest’impresa aveva concepito e ha realizzato, il vicentino Gilberto Padovan.

A monte, come usa dire, ci sono certamente molti precedenti, dal Breydenbach fino a Ippolito Caffi, Giovanni Pividor e Marco Moro: l’abbraccio visivo dell’intero profilo della città a sud denuncia ancora tutto il fascino dell’impresa e tutta la “resistenza” che l’oggetto continua a op­porre per le stesse identiche ragioni che esso, per sua natura, già opponeva cinque e più secoli or sono: la assoluta piattezza del sito e, per contro, la sua ineguagliata monumentalità; la fusione, infine, sulla linea d’orizzonte d’acqua e aria (così che agli osservatori più antichi parve che le navi scivolassero non sull’acqua ma sull’erba dei prati e tra le canne di un acquitrino).

Ma vi è di più: con procedimento insolito l’ambizione s’è fatta quella di superare i limiti dei tradizionali panorami fino a sviluppare il profilo della città sui 360° in sette grandi fogli ciascuno di un metro e sessanta di base.

Una Venezia nuova e inedita giunge a dar la vertigine del trovarsi dentro il corso urbano palpitante e inebriante, una sorta di anello naturale-artificiale, come una figura geometrica e, insieme un simbolo alchemico per questa eterna e impareggiabile fenice.