Dizionario vicentino-italiano e regole di grammatica

Nevio Furegon

La segnalazione di un cultore di storia locale ha consentito di recuperare in un archivio privato l’originale del “Dizionario Vicentino-Italiano” per le Scuole Elementari del nostro territorio, stampato nel 1876 dalla Tipografia Bianchi di Oderzo. Autore Giulio Nazari , maestro e pedagogista di fama. Veneto di origine, oltre al dizionario citato, Nazari ha “confezionato” analoghe pubblicazioni per gli scolari veneziani e del bellunese, un manuale per la Pubblica Istruzione Primaria (1878), un saggio storico-critico sulla “Tragedia Italiana” (1885) e sulle opere di Cesare Lombroso (1887), nonché altri scritti , tra cui un opuscolo per le nozze del marchese Giacomo Gonzati con Francesca Da Porto (Vicenza, Paroni, 1855). L’edizione anastatica, che ha conservato il fascino antico dell’originario “Dizionario Vicentino-Italiano con regole di grammatica” ad uso delle Scuole Elementari, comincia con l’ortografia e si conclude con la coniugazione dei verbi e contiene un corposo campionario di 5850 voci e 2470 frasi proprie del dialetto vivo di quegli anni lontani. La ristampa avviene dopo centotredici anni dalla prima edizione. Essa illustra un metodo che, ancor oggi, conserva originali pregi e che ottenne un premio al IX Congresso Nazionale di Pedagogia in quel di Bologna. Essa è stata accolta con particolare interesse da coloro- e sono molti- che hanno il culto delle tradizioni nostrane ed un occhio di riguardo al problema di non far scomparire, come si tende, il dialetto, parte della storia civile di uomini e di comunità che espressero non poca saggezza e ferma rassegnazione di fronte alle difficoltà di un mondo in mutamento. La prima segnalazione del dizionario ci venne dall’amico Giorgio Lanza, personaggio che in fatto di tradizioni culturali vicentine non ha molti concorrenti e che è in possesso di un archivio personale con parecchio materiale inedito. Lanza aveva notato il dizionario in casa del generale Nilo Rossi, il quale l’aveva a sua volta ereditato con altri volumi dal padre, noto socialista riformista di vaga tendenza sansimoniana ed editore di pubblicazioni varie e di giornali, tra cui il diffuso quotidiano “ La Provincia di Vicenza” dei primi decenni del ‘900, soppresso nel 1927 dai fascisti. Tutto sarebbe rimasto allo stato di semplice scoperta, se il giovane editore Gilberto Padovan non avesse deciso di impegnarsi nella riedizione del volumetto che ha presentato, a giugno, con il linguista Manlio Cortellazzo nei Chiostri di Santa Corona. L’editore Padovan ha colto il valore della pubblicazione senza troppa opera di convincimento da parte di chi scrive e dell’amico Antonio Stefani. Segno di entusiasmo e di una editoria emergente che si affida alla bravura e all’intuizione professionale. L’opera del Nazari si colloca nel primo periodo post-unitario quando, è risaputo, “Fatta l’Italia occorreva fare gli Italiani”. Al giovanissimo e fragile Regno d’Italia si presentava il problema dell’istruzione pubblica, cioè di educare le nuove generazioni cercando di diffondere la lingua comune, l’Italiano, in grado di sovrapporsi, sia pure lentamente, alla miriade di dialetti caratterizzanti le comunità del Paese. Istruire, soprattutto, per sviluppare una coscienza nazionale a coronamento del lungo e tormentato periodo Risorgimentale. Il che non era operazione agevole. Limitandoci a qualche cenno storico, si ricorda, restando nel Veneto, la miseria di un mondo rurale alle prese con la sopravvivenza. Non è che la venuta dei Savoia fosse, tra l’altro, tanto ben vista. Se il 1866 segna la data storica dell’Annessione al Regno Sabaudo, in pratica, è noto, ci volle molto tempo perché si potesse parlare di accettazione del nuovo Stato, non solo da parte delle masse popolari, ma anche di buona parte del Clero Alto, austriacante perché di nomina imperiale. Il nuovo Regno non aveva molta forza politica e scarse erano le risorse per dare un minimo di benessere alle popolazioni. E qui è d’obbligo citare quella famosa, celebre filastrocca che più di tanti ponderosi studi su quel tempo fotografa condizioni e umori dei Veneti. Questa è: “ Co Venesia comandava, se disnava e se senava; coi Francesi bona xente se disnava solamente; co la Lorena no se disna e no se sena; coi Savoia xe rivà una fame boja”. Ed ancora, l’ironia rozza sì, ma efficace del radicale “ El Visentin”, allora considerato “ el diavolo” della stampa locale tutto intriso di populismo, riportava a mo’ di réclame questo annuncio: “ Novo ceroto per guarir le bastonà da orbi che se distribuisse tutto el giorno dalla gente delle tasse in omaggio alla libertà e giustisia esercità nel Regno d’Italia”. In queste precarie condizioni sociali, economiche e politiche oltre che umane , la Legge Coppino sull’obbligo scolastico elementare, approvata nel 1877 dopo lunghe discussioni, aveva molte difficoltà obiettive ad essere applicata nel Veneto. La legge, come ricorda uno studio di Francesco De Vivo, si scontrava con grossi problemi quali l’edilizia scolastica, la preparazione dei maestri, l’applicazione delle sanzioni contro i genitori che non mandavano i ragazzi a scuola, e l’insegnamento della religione, stante la resistenza degli intransigenti radicali, i quali vedevano come fumo negli occhi l’invadenza dello Stato Liberale esprimersi in un settore, quello dell’istruzione elementare, avendo avuto la Chiesa mano libera per tanto tempo dal cattolicissimo Impero Austriaco. Nel quadro va posto anche un Veneto che era allora ben lontano dall’essere una società impostata sulla linea di una effettiva rivoluzione industriale. Con il che, imperante il paternalismo o forme sterili di filantropismo umanitaristico, le classi dominanti non avevano molto interesse nel promuovere l’incremento dell’istruzione sia elementare sia tecnico-professionale ( a parte il caso di Alessandro Rossi di Schio che fondò l’Istituto Industriale in città sul finire dell’Ottocento, esempio avveduto di imprenditore), né la spinta al rinnovamento poteva venire, ovviamente, dalle masse contadine o da quelle in via di formazione del proletariato operaio. E’ da ricordare che i padroni delle industrie seriche o di altri opifici impiegavano, addirittura, bambini di appena cinque o sei anni. E quando nel 1886 fu varata la legislazione a tutela dell’infanzia, vietando il lavoro ai fanciulli in età scolare, si continuò per lungo tempo ad ignorarla. Né risulta che la stampa ufficiale si occupasse del fenomeno. Anzi, in un foglietto del tempo si faceva cenno perfino alla convenienza, per ragioni morali, a che le fanciulle se ne stessero a casa, evitando di recarsi a scuola. Qualche dato per quanto riguarda il Vicentino. Al censimento del 1871, 37mila erano gli abitanti di Vicenza: su 18mila uomini soltanto 7mila sapevano leggere e scrivere, 840 soltanto leggere. Delle 18mila donne, 10mila sapevano leggere e scrivere e 390 solo leggere. Per il Prefetto di Vicenza l’istruzione seguiva un andamento perfettamente regolare. La percentuale degli analfabeti in tutto il Veneto era molto alta, nell’area vicentina arrivava al 50%. I miglioramenti negli anni che seguirono all’Annessione non furono apprezzabili, anche se una modificazione in meglio si era avuta perché nel 1866, all’atto dell’unificazione, l’analfabetismo raggiungeva il 69% dei ragazzi in età scolare, a cui si aggiungevano gli adulti nella stragrande maggioranza senza un minimo di istruzione. Erano le ragazze, in particolare, a non frequentare le scuole anche perché, per loro, non ne esistevano. Tra il 1876 e il 1877 erano oltre 9mila gli alunni non frequentanti l’anno scolastico, con queste motivazioni: 2600 per l’eccessiva lontananza della scuola dalla loro abitazione; 1200 per l’estrema povertà delle loro famiglie; 4500 per l’indolenza dei loro genitori; 640 per cause di malattia e 364 per mancanza di scuole femminili. La metà dei ragazzi in età scolare, dunque, non frequentava per cause non dipendenti dalla loro volontà. E’ da rilevare che l’asserita indolenza dei genitori celava una situazione economico-familiare di grande miseria, per cui vi era la necessità di mandare i figli, bambini e bambine, al lavoro nei campi, sui monti a raccogliere legna o a custodire il bestiame, oppure a lavorare nelle botteghe dall’alba a sera inoltrata, come riferì a suo tempo il Lioy. In quanto ai maestri, nello stesso periodo ottennero l’abilitazione magistrale un numero esiguo di allievi rispetto alle necessità, posto che la legge sull’obbligatorietà scolastica si fosse potuta applicare integralmente. La diffusa miseria del mondo rurale vicentino e veneto costrinse sul finire del secolo, nel momento in cui si avviava la prima forma capitalistica, alla grande emigrazione: migliaia di famiglie andarono per il mondo a cercare lavoro e un vivere più dignitoso. Fu un grande esodo contrassegnato da drammi umani enormi. Si ricorda che il Presidente del Consiglio di allora, Zanardelli, in visita a un paese del Veronese si sentì dire dal Sindaco: “ Siamo un comune con 8mila abitanti, 5mila se ne sono andati, 3mila si stanno preparando!”. Il poeta veronese Barbarani ha lasciato, sull’abbandono della terra natia, questa immagine: Crepà la vaca che daxea el formaio, morta la dona a partorir na fiola, protestà le cambiali dal notaio, una festa, a l’osteria, co un gran pugno batù sora la tola: “Porca Italia – i bastiema – andemo via!”. Ma questa è un’altra storia.

 

Giuseppe Malfermoni

Il “Dizionario Vicentino – Italiano e regole di grammatica” di Giulio Nazari esce nel 1876 e viene a porsi, rispetto alla cultura ufficiale della scuola, tra la Legge Casati del 1860, i cui programmi erano stati precisati e modificati dal Regio Decreto del 1867, e quelli del 1888, scritti e ispirati dal primo vero pedagogista, il Gabelli. Quando esce il Dizionario del Nazari, la situazione della Scuola Elementare non è certo buona. Poiché l’istruzione è a carico dei Comuni, c’è enorme disparità tra Comuni grandi e piccoli, Comuni di zone in espansione e quelli che si trovano in zone di miseria e di abbandono. La legge prescrive quattro anni per la Scuola Elementare, di cui però solo i primi due sono obbligatori. I maestri mancano: i Comuni, specie i più poveri, assumono i maestri all’insegna del risparmio, spendendo il meno possibile. Bastava che dimostrassero “di non essere analfabeti, disonesti, malati e che, nel loro lavoro, non menassero troppo le mani”. I Comuni li assumevano con contratti a termine, perciò i maestri erano alla completa mercè dei Sindaci e delle Giunte, non necessariamente competenti in materia scolastica. Maestri e maestre erano pagati in modo differenziato: le donne avevano un terzo in meno del già esiguo trattamento degli uomini. Non è da meravigliarsi se molti insegnanti conoscessero a mala pena l’Italiano; del resto se avessero parlato solo quello, molti loro alunni, totalmente dialettofoni, non avrebbero capito. La penisola presentava, allora, percentuali di analfabetismo dell’80 e 90%, ovviamente distribuite in modo disomogeneo. In effetti l’obbligo per le classi prime e seconde Elementari, stabilito dalla Legge Casati all’art. 56, offriva alle autorità, che avrebbero dovuto farlo rispettare, un sacco di scappatoie “Venendosi a conoscere alcuno che, avendo agio di mandare i propri figli alle scuole pubbliche trascuri di farlo e non adoperi altro mezzo per istruirli, il Sindaco lo chiamerà a sé per fargli conveniente esortazione; e qualora persista nella sua negligenza, quegli farà istanza presso il Giudice di Mandamento affinché sia punito per atto di contravvenzione, giusta le disposizioni contenute nel capo IV del libro III del Codice Penale”. Bisognava aspettare la Legge Coppino del 1877 perché le disposizioni sull’obbligo fossero chiare e più precise. Applicabili almeno dal punto di vista giuridico perché la realtà, in cui quelle leggi avrebbero dovuto agire, le smentiva nel modo più clamoroso. Il lavoro minorile La Legge Casati veniva estesa alle province della penisola via via che esse si aggregavano al nuovo Stato che andava sorgendo; la scuola assumeva sempre più importanza proprio perché c’era necessità di disporre di una lingua comprensibile a tutti e, ad esempio, di avere un solo sistema di misure con l’assunzione del Sistema Metrico Decimale, là ove si misurava ancora a braccia, a pertiche, a spanne. All’espansione scolastica tuttavia si opponeva, oltre alla penuria di maestri, alla cattiva volontà delle Amministrazioni Comunali, all’aperta ostilità dei conservatori, il problema gravissimo del lavoro minorile. Vale la pena di riflettere su una relazione del medico provinciale di Como; nella seconda metà dell’800, nel Comasco, predominavano le industrie seriche alle quali erano adibiti donne e minori (si assumevano, addirittura, bambine di cinque o sei anni). Nella relazione del medico, scritta nel 1872, parlando delle bambine operaie, il dottore scrive: “In età così acerba sono costrette a rimanere l’intera giornata, dallo spuntar del sole a sera tardi, rinchiuse in officine più o meno salubri e aerate per correre dietro ad un’aspa o rannodare un filo, uffici ai quali la piccola statura e la destrezza delle mani le rende adattissime…”. Ovviamente applicare in tale situazione la legge sull’obbligo sembrava utopico, infatti il medico afferma: “Riguardo all’insegnamento obbligatorio, per ottenerlo, bisognerebbe che la giornata si allungasse, ma a meno di rinnovare il miracolo di Giosuè, voi non potrete fare che dopo aver preso ai ragazzi quattordici o quindici ore per l’officina si riesca a trovare un ritaglio di tempo per frequentare con frutto la scuola” (1). Bisognava arrivare al 1886 perché si facesse uscire una legge che tentava di limitare il lavoro minorile, fissando l’età minima a nove anni! E, naturalmente, anche questo modestissimo e prudente tentativo rimase spesso senza conseguenze per l’aperta ostilità del padronato che vedeva minacciati i propri profitti. Nel Sud, ad esempio, ove non esistevano industrie seriche, i minori erano sfruttati nelle miniere di zolfo (la loro piccola statura consentiva di farli lavorare anche nei cunicoli più stretti). Lo stesso Giolitti, e siamo nel 1894, ricorda nelle sue memorie che “Dopo lo scioglimento (dei Fasci Siciliani) si raccolse a Caltagirone un congresso di grossi proprietari, il quale ebbe il coraggio di proporre, per tutta riforma, l’abolizione della istruzione elementare perché i contadini ed i minatori non potessero, leggendo, assorbire idee nuove” (1). Né, da parte della Chiesa ufficiale, veniva aiuto o speranza per tale situazione: nell’Enciclica del 1878 di Papa Leone XIII, Quod apostolici muneris, è ribadita la validità dell’ordine costituito contro il quale diventa peccato grave ‘pensare a rivolgimenti’: “Nei genitori e nei padroni si trasfonde l’autorità del Padre e del Padrone Celeste, la quale perciò… prende da Lui l’origine e la forza” (1). I contenuti culturali All’epoca dell’uscita del Dizionario possiamo dire che la scuola più diffusa era quella Elementare che comprendeva le due prime classi obbligatorie (la prima e la seconda). La prima poteva essere suddivisa in due anni, denominati sezione inferiore e sezione superiore. Nella sezione inferiore il programma di Lingua Italiana diceva: “Esercizi graduati di sillabazione, spezzando parole intere, che saranno scelte a tal fine e spiegate. Formazione di lettere, di sillabe e di parole per imitazione. Scrittura di parole dettate per via di sillabe semplici”. Nella sezione superiore: “ Esercizi graduati di sillabazione, di lettura e di retta pronuncia. Spiegazione dei vocaboli e delle proposizioni lette. Esercizi di scrittura per imitazione e sotto dettatura. Esercizi di ortografia. Esercizi di memoria”. Per coloro che riuscivano a superare i due anni di prima ( bisogna pensare che le classi avevano ottanta, novanta alunni e le bocciature raggiungevano percentuali del 60 -70% ), si apriva la classe seconda. Il programma di seconda introduceva finalmente l’uso del libro di testo e si prescriveva la conoscenza delle parti del discorso e della proposizione. Anche se il commento pedagogico-didattico a quei programmi avrebbe bisogno di un ampio discorso, mi interessa qui mettere in rilievo almeno due punti: si chiedevano conoscenze grammaticali a bambini ai quali la stessa legge riconosceva che, per imparare a leggere e scrivere, erano necessari due anni! Si raccomandavano, inoltre, al maestro esercizi di lettura e di retta pronuncia; ma quale poteva essere la retta pronuncia nel Veneto, in Piemonte, in Sicilia? I programmi raccomandavano di rifarsi all’uso più comune. Quale? Nella relazione di un ispettore ministeriale sulla situazione delle scuole in Italia, relazione del 1905, si legge, per l’Elementare, che la lotta contro la “mala erba dei dialetti” registrava ancora poche vittorie, perché molti maestri parlavano spesso in dialetto con i bambini. Bisogna tuttavia pensare che i due anni assegnati alla classe prima si giustificavano con i metodi allora usati e con il fatto che si insegnava la forma scritta di una lingua, come l’Italiano, a bambini profondamente radicati in un mondo dialettale nel quale era inserito lo stesso maestro. Il leggere e lo scrivere l’Italiano era perciò un’impresa di una difficoltà enorme; infatti uno dei motivi che spinge il nostro Nazari a compilare il Dizionario è la speranza di combattere contro la ricaduta nell’analfabetismo così diffuso, data la fragilità delle strutture scolastiche. Il Nazari, infatti, chiude la sua prefazione con un’accorata richiesta agli insegnanti: “ Vegga il maestro che i fanciulli acquistino l’abitudine di consultare sovente questo dizionarietto sicché vi sia speranza che, anche quando avranno abbandonata la scuola, in casa e nell’officina vi ricorrano qualche volta. Così non si rinnoverà il fatto, oggi tanto frequente, che il fanciullo…ridivenga presso che analfabeto a vent’anni”. Se si può oggi capire la necessità di diluire la classe prima in due anni, non si può certo giustificare la metodologia suggerita per imparare a leggere e a scrivere e, ancora peggio, non si capisce a che cosa servissero le conoscenze grammaticali date a bambini che a mala pena capivano l’Italiano e, naturalmente, con più fatica lo leggevano. Se non c’è giustificazione pedagogica, allora sembra farsi accettabile una giustificazione politica che è stata avanzata da più parti: la borghesia liberale, promotrice della scuola pubblica, pensava ai programmi avendo sotto gli occhi il destino dei propri figli che avrebbero proseguito gli studi ( e l’analisi grammaticale e logica sembravano servire allo studio del Latino). Non si pensava certo alle esigenze delle migliaia di bambini che non sarebbero andati oltre la seconda, per i quali l’obiettivo primario avrebbe dovuto essere il possesso e l’uso di un Italiano utile e spendibile concretamente almeno in una sicura capacità di lettura. Lingua e dialetto Abbiamo visitato, sia pur velocemente, la scuola del passato perché volevamo collocare il Dizionario del Nazari nel suo tempo. Possiamo dare uno sguardo, ora, alla situazione odierna. L’obbligo si è allungato alla terza Media. Le bocciature ci sono ancora, ma non sono più quelle di un tempo. La TV, nel bene e nel male, ha diffuso capillarmente un modello di lingua italiana così come non era mai avvenuto nella storia d’Italia. Per i dialetti l’impatto con la TV è stato fortissimo: gli esiti differenziati. Nel nostro Veneto, la resistenza è ancora forte; la radice culturale non è sparita, anche se possiamo parlare di isole più o meno vaste e differenziate che di uniformità di situazioni. Oggi i bambini, a sei anni, affrontano la forma scritta dell’Italiano con modalità ovviamente diverse dai loro predecessori, ormai lontani… Eppure per un bambino oggi dialettofono si pongono ancora problemi che, prima di essere linguistici, sono antropologici. A scuola si scontrano due mondi: quello vissuto da zero a sei anni fra oggetti e persone, tra parole e natura, tra parole dette e ascoltate e parole che la scuola propone con la voce della maestra e con lo scritto. Lo scritto di una lingua non ancorata alla vita, una lingua che oggi si capisce più di ieri, ma che non si usa se non, appunto, a scuola. E non si tratta, come molti sembrano semplicisticamente credere, di imparare dei segni che debbono corrispondere a dei suoni (fatto, per altro, tutto da dimostrare), si tratta di ben altro. Saper scrivere significa saper organizzare il pensiero entro un medium che ha regole di strutturazione e d’uso molto diverse dal parlato. Si tratta di entrare in un mondo artificiale ove il bambino, di sua iniziativa, non sa cosa fare e cosa dire. A suo tempo lo soccorrevano i pensierini, piattaforme sicure e piene di certezze, ove le mamme erano sempre belle e buone e tutti i babbi tornavano a casa dal lavoro stanchi, ma sereni. Ove, come dice il nostro scrittore, si trovavano parole che la maestra insegnava come “spaziosa, chicchi, imposte, dirupi”. Un mondo strano con aule sempre spaziose e, ovviamente, belle. E, se proprio una schiacciante evidenza non permetteva l’uso di “spaziosa”, si poteva ricorrere alla formula linguistica di ricambio: “piccola ma graziosa”. Il mondo dello scritto imponeva i suoi canoni che dovevano essere rispettati: la realtà stava fuori ed era un’altra cosa. “Questa mattina ho aperto le imposte e ho visto il sole. Poi mi sono lavato la faccia, le orecchie e il colo. Mi sono vestito e petinato. Dopo aver mangiato il cafelate io sono andato a scuola. La mia scuola è posta in via Borgo ed è bella e spaziosa. La mia maestra si chiama Prospera Moretti” (2). Il mondo dello scritto era quello della scuola, quello che viveva nei quaderni a righe, nei libri di lettura e nei sussidiari. Un mondo strano, con una vita sua; un mondo che Meneghello in “Jura” chiarisce in modo preciso, quando, ad esempio, ricorda le difficoltà incontrate in classe prima con la scrittura della parola “uccellino”. Dice Meneghello: “Scrivendo, ci si andava ad inserire in una sfera in cui vigeva un diverso principio di realtà e le cose significate dalle parole avevano caratteristiche nuove rispetto al parlato. Un uccellino, infatti, non fa ciò che fa un oseleto, il quale non fa quasi niente. L’ uccellino è energico fattivo: svolazza, loda Dio; si fa ritrarre nei libri di lettura o in cartolina, e si può copiare a mano…è utile alla società, anzi pare un po’ il servitorello della Primavera, della Maestra… Al confronto l’oseleto è uno scalzacane. Non sa niente, non sa le poesie a memoria, non entra nei dettati, nei libri, nei pensierini… Non pare che abbia alcuna funzione, non interessa alle persone istruite. Eppure tutti sanno che ha una qualità che all’altro manca: è vivo, ed è proprio lui che presta all’altro una sembianza di vita. Perché l’uccellino, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto un po’ vitreo”. Bisognerebbe forse non dimenticare mai che un bambino dialettofono, che sta imparando la versione scritta di una lingua che non usa, non sta certo superando difficoltà solo tecniche, ma sta entrando in un mondo nuovo, sconosciuto e strano. In una prima Elementare della campagna vicentina, qualche anno fa, alla maestra che gli chiedeva di “leggere” l’alfabetiere murale, un bambino ebbe ad un certo punto dei problemi. Gli andava bene, anche se non ne capiva l’utilità, che si dovesse dire L di LUNA, perché nel disegno si riconosceva il quarto di luna che qualche volta si vede anche in cielo, ma che sicuramente si trova nei libri di lettura, cartoline e cartoni animati; gli andava anche bene di ripetere B di BANANA e S di SOLE; aveva una qualche difficoltà a ripetere A di APE perché l’ape, per lui, era la vespa; ma aveva, però, anche imparato che le vespe della scuola si chiamano api. Quando, tuttavia, si trovò di fronte al cartellone con il disegno di un bel topo grosso, con la coda lunga, non ebbe nessun dubbio e lesse T di sorze. Né seppe capacitarsi dello stupore della maestra perché el sorze era per lui una presenza così concreta e ineliminabile che nessuno, nemmeno la maestra, avrebbe dovuto o potuto aver dubbi sulla corretta denominazione. Sempre nel paesino del sorze, un giovane maestro si lamentava, un giorno, con una sua anziana e stimata collega sulla quantità incredibile di errori che i bambini facevano nei dettati. “ Dipende da come detta Lei”, avvertì l’insegnante, ricca d’esperienza. “ Bisogna stare attenti alle difficoltà! Scommetto che i suoi sbagliano sempre quel benedetto digramma gl: lo usano quando non si dovrebbe e lo omettono quando, invece, ci vuole”. “ E’ vero” riprese sconsolato il maestro. “ Dipende da come detta” ribatté sicura l’anziana maestra. E continuò: “ I miei non fanno più errori di questo tipo. Se c’è da scrivere, ad esempio, GLI ITALIANI, che di solito loro scrivono LI ITAGLIANI, io detto G-L-I ITALIANI ( gli come in glicine) e quell’errore lì, almeno quello, gliel’ho levato!”. Un bambino di seconda dell’Alto Vicentino, invece, protestava un giorno con la sua insegnante: “ Maestra, Marco el me ga ciavà la goma”. E la maestra, sempre attenta al ruolo, professionalmente intervenne dicendo che, a parte che quella parola a scuola non si doveva mai usare, in quel caso si doveva dire” Marco mi ha preso la gomma”. Ma il piccolo, pensando che la maestra non avesse capito la gravità e la sostanza del fatto, ribadì con forza e convinzione: “ Maestra, non me l’ha presa, el me la gà proprio ciavà!”, a sottolineare l’azione riprovevole di Marco che, ne era proprio convinto, non rientrava certo nella categoria delle azioni di scambi e prestiti tra amici. Si inscriveva in una realtà completamente diversa che le maestre, forse alle volte un po’ distratte, non capiscono oppure semplicemente non conoscono perché, nel loro mondo, certe fatti non accadono.

(1) AAVV, La scuola in Italia, Mazzetta, 1975.   (2) Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Feltrinelli, 1970.   (3) Luigi Meneghello, Jura, Garzanti, 1987.