Le “Quattro Stagioni” di Giuseppe Arcimboldo

Le Quattro Stagioni di Giuseppe Arcimboldo, disegnate a china nera da Guido Albanello, sono state acquerellate   a mano da artisti contemporanei e siglate P.A.

Alcune fotografie scattate in occasione della consegna di una collezione al direttore del Dipartimento Stampe e Incisioni  del Musée  du Louvre, Parigi.

L’opera d’arte, firmata dall’autore cinqucentesco Giuseppe Arcimboldo (1527-1593), è stata reinterpretata in manietra magistrale da Guido Albanello sotto la regia dell’editore Gilberto Padovan.

La perfezione calligrafica dei disegni, esaltata , sublimata, è resa ancor più mirabile dalla tecnica precisa, persino maniacale, dell’artista vicentino. Dove il pennello del pittore milanese non è rrivato, sembra essere giunto il finissimo pennino a china del nostro artista: la sua mano ferma, sicura, senza indugi nell’avvicinarsi, tra le corolle e le venature, nel solco tracciato dal fantastico pittore cinquecentesco, è  capace di ovviare alla mancanza dell’impianto assicurato dal colore con sapiente uso dei chiaroscuri.

Rotonde e vive, le figure di Albanello si staccano dallo sfondo grazie alla profondità del “nero” (a sua volta sfumato in mille gradazioni) e alla leggerezza del “bianco”, a tratti più vivido, a tratti più morbido, aprendosi in quell’infinita gamma di “grigi” che traducono nel linguaggio della china i rossi, i verdi, i gialli, i bruni di Arcimboldo.

Così, nell’elegante Primavera, il delicato, appena intuibile accostarsi di corolle d’un rosa tenue a suggerire l’incarnato – più intenso nella guancia e nel mento e ancor più nello schiudersi sorridente delle labbra e nel carnoso tulipano che diviene orecchio – assume in Albanello contorni più nitidi, ulteriormente perfezionati nella splendida gorgiera di fiorellini bianchi, prezioso completamento della veste intessuta di foglie, minuscole lungo il busto, più ampie e vellutate sulla spalla, affidata a lattuga e radicchio. Splendida l’ acconciatura, minutamente ricreata da Albanello, che non lascia all’immaginazione nemmeno un petalo degli infiniti fiori che la compongono: dalla più umile pratolina al maestoso giglio bianco che la chiude, attraverso dalie e zinnie, margherite e tulipani, rose e ranuncoli.

Tutta frutti, ortaggi e spighe è l’Estate, sorridente e generosa. Qui Albanello tesse una festuca dopo l’altra, l’abito di fieno intrecciato – chiuso da un carciofo a mo’ di spilla – cui il pittore affidò anche la sua firma, ben leggibile sull’alto collo impreziosito da spighe (oltre a una “F.” che significa “fecit”), e l’anno di realizzazione, il 1573, ricamato appena sotto la spalla. Volto e capigliatura sono un complesso armonioso sovrapporsi di ortaggi e frutti: dal grosso cetriolo del naso alle rosse ciliegie, a formare una sorta di ghirlanda attorno al viso e le labbra, socchiuse  su un baccello di piselli che richiamano i denti; dalle zucchine e carote che suggeriscono il collo, alla pannocchia cui Arcimboldo affida il compito di rappresentare l’orecchio; dalla pesca vellutata della guancia all’occhio brillante, creato da una lucente ciliegina sistemata tra due piccole pere tra l’ocra e il ruggine e su su fino alle susine a alle more dei capelli che, con qualche grappolo d’uva verdognola e un melone, completano l’insieme. Albanello non scorda un particolare, non tralascia un elemento: anzi, li esalta ciascuno come protagonista assoluto della composizione, fin nei minimi dettagli, come le sottilissime “barbe” degli agli o le minuscole cavità delle singole festuche.

Più caldo nei colori e più composto nell’insieme è l’Autunno di Arcimboldo, reso da Albanello con mano morbida e pastosa. La stagione della vendemmia è rappresentata da una figura dai tratti maschili, un po’ grossolani, una testa che emerge da un tino dalle assi sconnesse, su cui spiccano una nespola, una bacca, qualche oliva e un tralcio di vite.

A disegnare il volto robusto (che ricorda certa iconografia dedicata a Bacco) ecco allora mele mature,
rosse quanto basta per richiamare anch’esse l’ebrezza del vino, un melograno, un fico, delle pere, una carota, una patata a suggerire il grosso naso, il riccio socchiuso di una castagna per la bocca, spighe brune per la barba, un fungo dal cappello rosso per l’orecchio. E per la capigliatura una grossa zucca e tanti grappoli d’uva tra l’oro e il bruno, interrotti da qualche foglia di vite appena un poco ingiallita.

Anche in questo caso, Albanello supera se stesso: la scorza della carota, omogenea, uniforme in Arcimboldo, ritrova qui le sue naturale rugosità; il fico maturo, che spicca come un orecchio nella pittura, scopre il suo interno molle e granuloso; le lamelle del fungo si possono contare una per una così come le minuscole corolle dell’erba essicata che fa da mascella. E l’abile dosaggio della china, il magistrale addentrarsi e assotigliarsi degli infiniti “puntini”, che danno al disegno a china rotondità e prospettiva, rivelano, ancor più nitida che in Arcimboldo, la simpatica lumachina, quasi trasparente, assisa sulla lucida “zucca” dell’Autunno.

Severo ma non triste, è l’Inverno  di Arcimboldo, ravvivato persino dal giallo acceso dei due agrumi in primo piano e dal verde tenue di un’edera. Non c’è neve a richiamare la stagione più fredda dell’anno, ma un austero tronco d’albero dal naso arcigno e dalle labbra affidate da Arcimboldo alla pasta biancastra e carnosa di un fungo, dai bordi d’un rosso cupo. Un vecchio dall’aria pensosa, le spalle strette in una stuoia pesante, la barba ispida di ramoscelli secchi e in parte recisi, per orecchio un nodo contorto, per capelli un intrico di rami, la fronte e le guance coperte a tratti da muschio argento. A colpire, nella versione di Albanello, è in questo caso la notevole resa prospettica della capigliatura, in cui l’intrecciarsi dei rami assume uno spessore, se possibile, ancor più ampio di quello dato da Arcimboldo: il nero uniforme della pittura sembra divenire, nella china, un sovrapporsi di più “neri”, ad allungare a dismisura lo spazio tra l’osservatore e il fondo dell’immagine. Né da meno, in questo quarto ed ultimo profilo della serie, la cura dei particolari: basterà osservare la trama della stuoia, la sua  lucentezza; la scorza spessa e irregolare del limone e dell’arancia sul davanti; le volute contorte della corteccia; la leggerezza luminosa dell’edera che cinge il volto di questo austero, nobile Inverno.

Ma non è finita. A cingere i quattro capolavori di Ancimboldo (e oggi di Albanello), ecco le quattro ghirlande che il pittore volle inserire a cornice dei suoi ritratti; esse stesse opere di alta maestria, perfetto, armonioso completamento dei quattro volti a metà strada tra natura e uomo: o forse, proprio un richiamo, rivolto all’uomo, al suo essere parte della natura. Quelle stesse ghirlande sono in Albanello un capolavoro nel capolavoro: riprese e perfezionate, rese ancor più minuziose dell’originale, precise e leggibili anche là dove il pennello di Arcimboldo le suggerisce appena.

Una domanda, a questo punto, sorge spontanea: avrebbe apprezzato, Arcimboldo, il lavoro di Albanello?

Intelligente e colto, eclettico e curioso del mondo, fantasioso e pignolo, il milanese cresciuto come pittore accanto al padre Biagio, con le vetrate del Duomo di Milano come prima scuola e come “patria artistica” la corte praghese degli imperatori Ferdinando, Massimiliano e Rodolfo, ci piace pensare che avrebbe apprezzato il “ collega”: e che magari se lo sarebbe portato con sé nei viaggi, alla ricerca di piante e animali esotici, che effettuava per incarico degli stessi imperatori, delegato ad arricchire quelle “gallerie delle meraviglie” che tanto piacevano ai nobili dell’epoca.

 

Una copia delle Quattro stagioni dell’Arcimboldo, realizzata a china da Guido Albanello, è stata donata dall’editore Gilberto Padovan alla sezione d’Arte Contemporanea del Louvre.